A sei mesi compiuti dal referendum a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (Ue) — era il 23 giugno 2016 — ancora nessuno sa quando e come cambieranno i rapporti del Paese d’oltremanica con il resto dell’Ue.
Il governo britannico dovrebbe attivare entro la fine di marzo la procedura per l’avvio dei negoziati con la Ue (destinati a concludersi entro due anni, secondo l’art. 50 del Trattato Ue); ma su tale promessa pende il verdetto della Corte suprema, che nelle prossime settimane potrebbe confermare la decisione dell’Alta Corte di giustizia del 3 novembre 2016, secondo la quale il governo ha bisogno, prima di avviare il processo di uscita dall’Ue, dell’approvazione del parlamento britannico, che potrebbe richiedere tempi più lunghi.
Nel suo discorso di fine anno, il primo ministro Theresa May ha affermato che quando siederà al tavolo negoziale con l’Europa, lo farà con la consapevolezza di dover raggiungere un accordo giusto “non solo per coloro che hanno votato per l’uscita [dalla Ue], ma per ogni singola persona in questo paese”. Dunque, forse un approccio “soft”, auspicato ormai da più parti, soprattutto dopo le dichiarazioni del ministro delle finanze britannico — Chancellor of the Exchequer Philip Hammond — del 23 novembre scorso, nella consueta presentazione del bilancio d’autunno al Parlamento. Anche se proprio ieri Theresa May è tornata sull’argomento, dicendo di non accettare “i termini ‘hard’ e ‘soft’ Brexit. Quello che stiamo cercando di fare è raggiungere un accordo ambizioso, buono e il migliore possibile per il Regno Unito”. Schermaglie politiche? Hammond ha delineato un quadro non roseo caratterizzato da una accresciuta incertezza economica e una sterlina più debole, tagliando le previsioni per la crescita economica nel 2017 e annunciando che il governo avrà bisogno di indebitarsi di più nei prossimi cinque anni. Secondo l’Obr (l’Ufficio per la responsabilità di bilancio britannico), il Gdp crescerà del 1,4% nel 2017 anziché del 2,2% previsto a marzo e il Regno Unito prenderà in prestito ulteriori 122 miliardi di sterline fino al 2020-21. Il governo non mira più ad un surplus di bilancio entro il 2020, ha detto Hammond, ma è impegnato a “quadrare i conti” nel corso della prossima legislatura 2020-2025.
Un’altra novità sono le dimissioni a sorpresa, il 3 gennaio, dell’ambasciatore britannico a Bruxelles, Sir Ivan Rogers, il cui incarico sarebbe venuto a scadenza solo alla fine del 2017. La sua immediata sostituzione con Sir Tim Barrow — ambasciatore a Mosca dal 2011 al 2015 e precedentemente già primo segretario della rappresentanza britannica all’Ue (dunque non nuovo alla materia degli affari europei) — non sembra aver placato le polemiche. Benché non espresse in una nota ufficiale, le ragioni dell’abbandono di Sir Rogers sarebbero da ricollegare a sue precedenti dichiarazioni, secondo le quali potrebbe trascorrere un decennio prima che l’Ue sia in grado di negoziare e concludere un accordo commerciale complessivo con il Regno Unito.
A Bruxelles, formalmente tutte le istituzioni europee continuano a funzionare “a 28”, ma i primi segni della Brexit cominciano ad evidenziarsi. Nella seconda metà del 2017, il Regno Unito non assumerà la presidenza del Consiglio europeo — l’istituzione che riunisce i capi di Stato o di governo dei Paesi membri, il presidente della Commissione europea e l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza; definisce l’orientamento politico generale e le priorità dell’Ue; ed è presieduta da un presidente permanente, eletto dallo stesso Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo (l’attuale presidente del Consiglio europeo è Donald Tusk, che ha sostituito Herman Van Rompuy il 1º dicembre 2014 e il cui termine viene a scadenza il 31 maggio 2017).
E proprio sulla Brexit gli Stati membri dell’Ue potrebbero ritrovare quell’unità di intenti sempre più rara negli affari europei. A margine dell’ultimo Consiglio europeo del 15 dicembre 2016, si è tenuta una riunione informale dei 27 leader. Dopo la riunione, i 27 leader e i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione hanno rilasciato una dichiarazione in cui indicano che avvieranno i negoziati con il Regno Unito non appena quest’ultimo avrà proceduto alla notifica di cui all’articolo 50 e accolgono “con favore l’intenzione del Regno Unito di provvedere in tal senso prima della fine di marzo 2017”. Un’altra riunione informale dei 27 capi di Stato o di governo è già in agenda per il 3 febbraio 2017, a Malta, per continuare la riflessione avviata a Bratislava il settembre 2016 sul futuro dell’Ue a 27 Stati membri. Il processo di riflessione si concluderà poi a Roma il 25 marzo 2017, in occasione del sessantesimo anniversario dei trattati di Roma.
Intanto, secondo un nuovo sondaggio internazionale pubblicato da Ipsos, dei 25 Paesi intervistati il Regno Unito è uno dei più pessimisti riguardo al 2017: solo un britannico su tre ritiene che il nuovo anno sarà migliore del 2016. Ma la percezione più negativa è in Francia, dove solo la metà della popolazione ritiene che il 2017 andrà meglio; seguono Belgio e Italia. Il Paese più ottimista è il Perù, con il 96% che crede che il 2017 vedrà una ripresa, seguito da Cina e India, due delle economie a più rapida crescita del pianeta.