Venerdì, in Norvegia è scoppiato l’inferno. Un uomo di 32 anni, Anders Behring Breivik, ha piazzato un’autobomba nel centro di Oslo, nella zona in cui risiedono le principali istituzioni del Paese. La sua esplosione ha provocato la morte di sette persone. Mentre la polizia si stava concentrando sul luogo dell’attentato, indisturbato si è diretto verso il suo secondo obiettivo, l’isola di Utoya, dove si stava svolgendo il raduno dei giovani laburisti. Lì, con una mitraglietta, ha iniziato a sparare sulla folla. Ha continuato a farlo per 90 minuti, mietendo 86 vittime. Poche ore dopo, si è arreso alle forze dell’ordine. Ha ammesso il suo crimine, spiegando che si è trattato di un atto atroce ma necessario. Nelle ore successive all’arresto, grazie alle dichiarazioni rilasciate alla polizia e a quelle ritrovate sul suo profilo Facebook assieme ad un libro-confessione di 1.500 pagine, si è iniziato a capire con chi si aveva a che fare: Breivik, che si definisce cristiano, massone e amante della musica classica, aveva collaborato in passato con l’English Defence League, un movimento con lo scopo esplicito di fomentare l’odio anti-islamico. La sua ossessione per l’Islam e per la purezza dell’identità nordica lo aveva portato a pianificare il massacro già nel 2009. Aveva teorizzato il terrorismo come strumento per «ridestare» i popoli contro gli invasori musulmani. Ilsussidiario.net ha chiesto a Vittorio Emanuele Parsi di commentare l’accaduto.
La follia di Breivik rappresenta un caso isolato, o è l’espressione estremizzata di tendenze presenti, in qualche misura, nel Paese?
Anche nell’ambito della pazzia, specie quando si sceglie di interpretarla in una certa maniera, evidentemente ci si nutre di alcune idee con le quali si ha abitualmente a che fare. In Norvegia esiste un atteggiamento di profondo scoraggiamento rispetto alla capacità della politica contemporanea di affrontare i problemi. Specialmente quelli che riguardano l’immigrazione e, in particolare, quella islamica. Rispetto a questa tendenza, Breivik è rimasto completamente “stordito”, e ha dato lettura del problema della propria identità e di quella del Paese radicalizzando la sua posizione in un accesso estremo di follia. La tensione sociale può far sì che un certo tipo di pazzia prenda una determinata direzione, identifichi certi bersagli, e si vesta di contenuti ideologici.
Tale scoraggiamento riguarda solo la Norvegia?
Credo che tutti i Paesi, in diversa misura, assistano all’incapacità di un certo multiculturalismo di affrontare i problemi. La sensazione di fallimento è più forte in quella Nazioni che hanno perpetrato l’apertura nei confronti degli stranieri con particolare forza o onestà, perché lì si è avvertita maggiormente la fatica dei cittadini ad accettare gli immigrati, e la fatica degli immigrati ad integrarsi.
Ha senso definire Breivik, come è stato fatto, “cristiano fondamentalista”?
Breivik è ossessionato dalla minaccia che il cristianesimo starebbe subendo dall’islam, e si ispira a questa visione distorta della religione sotto assedio. Tuttavia, mi pare che la definizione sia stata utilizzata in contrapposizione al termine adoperato inizialmente, quando si sospettava che dietro gli attentati ci fosse l’ideologia islamista. Si è capito che si trattava di una falsa pista e si è scelta l’espressione “fondamentalista cristiano” per sovrastare, in termini di comunicazione, l’espressione “fondamentalista islamico”.
Negli istanti immediatamente successivi agli attentati si è evocato lo spettro del terrorismo di matrice islamica. Qual è il senso politico e culturale di questa iniziale reazione?
Ad eccezione dell’Eta, in Spagna, la matrice degli attentati degli ultimi anni è stata, prevalentemente, islamica. Si tratta, quindi, di una reazione scontata; le modalità dell’attentato, del resto, hanno fatto pensare ad un mondo completamente alieno al nostro, a persone che non si identificassero con la Comunità internazionale. Questo atteggiamento denuncia semplicemente una difficoltà nel rapportarci con il fenomeno dell’immigrazione. Difficoltà, spesso, alimentata da logiche politicamente corrette che non riescono a ragionare sui problemi in termini realistici.
C’è un legame tra il neonazismo, al quale Breivik si ispira, e le problematiche relative all’identità di Paesi come la Norvegia?
Nel momento in cui si avvertono fragilità identitarie o difficoltà ad auto-collocarsi in un’identità precisa, ideologie come queste, che dopo l’89 hanno avuto una forte ripresa, specie nell’Europa settentrionale e orientale, assorbono la funzione di rassicurare le persone più deboli.
In Italia si rischia il diffondersi di movimenti del genere?
Direi di no. Anzitutto, da noi l’immigrazione non è un fenomeno così massiccio. Non abbiamo una legislazione particolarmente promotrice dell’integrazione rapida e questo, paradossalmente, rassicura chi teme gli stranieri. C’è, inoltre, un’impostazione culturale diversa, in cui la Chiesa cattolica ha svolto il ruolo di educatore popolare. E’ difficile, quindi, che tensioni come quelle deflagrate in Norvegia, in Italia possano prender piede. Anche perché la tradizione dell’estrema destra italiana è fondamentalmente di derivazione fascista. Che ha avuto, certo, una deriva razzista ma non in termini costitutivi.
(Paolo Nessi)