Se provassimo a tornare indietro nel tempo, ad appena cinque anni fa, l’ipotesi di un negoziato diretto tra Usa e Iran l’avremmo trovata al massimo in una spy story in cima alle classifiche di vendita. Uno scenario alla Tom Clancy che avrebbe appassionato gli amanti del genere ma fatto correre le Cancellerie a bollarlo come fantasioso. Cinque anni fa, sotto il profilo geopolitico, il mondo era completamente diverso. Non c’erano state ancora le finte primavere arabe; l’Isis non esisteva; a Washington si era ancora convinti che i “bad boys” dell’islam radicale fossero quegli sciiti iraniani che nel 1979 avevano tenuto sotto scacco a Teheran il personale diplomatico e la reputazione dell’America.
Oggi in Svizzera siamo a un passo da un pre-accordo storico, in grado di cambiare la dinamica della geopolitica mediorientale e mondiale. Un pre-accordo che andrà confermato nella sua versione definitiva entro l’estate ma che di fatto impone una moratoria pluriennale sulla capacità iraniana di arricchire uranio oltre la soglia di non ritorno, utile a produrre una testata atomica. Di fronte a questo impegno, che saranno i tecnici dell’Aiea a dover verificare periodicamente, l’Iran ottiene il rientro nella comunità internazionale, un ruolo di primo piano negli equilibri della regione in forte sommovimento e un alleggerimento delle sanzioni internazionali.
Se consideriamo che per raggiungere un livello apprezzabile di de-escalation nucleare durante la Guerra fredda tra le due superpotenze, Usa e Urss, ci sono voluti quasi vent’anni e poco meno di una decina di accordi bilaterali (Start e Salt), quello sul nucleare iraniano è un accordo davvero storico.
Un accordo che, come in tutti i casi analoghi, prova a tessere una tela win-win, ovvero reciprocamente vantaggiosa, ma che necessariamente scontenterà qualcuno.
Innanzitutto l’Arabia Saudita, storico competitor dell’Iran, oggi in forte difficoltà per almeno tre ordini di fattori: il prezzo basso del petrolio, che ne assottiglia la cassa disponibile, la problematica successione al trono e, infine, lo scontro epocale tra sunniti e sciiti che sta infiammando l’area vasta che va dal Maghreb fino all’Afghanistan. Quest’ultimo è uno scontro che rischia di assumere i contorni non più di un conflitto per procura, come sta già accadendo in Siria, in Iraq o nel Bahrein, ma di sfociare in una guerra aperta, i cui colpi si cominciano a sentire dallo Yemen.
Sicuramente non esulta (e non lo nasconde) Israele, preoccupata della capacità iraniana di essere di nuovo un attore preponderante. Per il governo di Netanyahu, l’accordo sul nucleare lascia mano libera a Teheran nel continuare a finanziare Hamas e Hezbollah, sostenere il regime di Assad in Siria e mettere in pericolo in futuro l’esistenza stessa dello Stato ebraico attraverso la minaccia nucleare.
Ma l’America di Obama ha scelto. E con essa l’Europa. E’ significativo che, fino a qualche anno fa, tutti i presidenti americani decidessero di lasciare la Casa Bianca esperendo l’ennesimo tentativo di riconciliare israeliani e palestinesi. Le photo opportunities dei leader delle due parti e dell’inquilino di turno nello Studio Ovale si sprecano.
Obama ha scelto di cambiare strada e di chiudere i due mandati a Washington con questo accordo con Teheran. La Russia, che ha protestato spesso in maniera vibrante rispetto alla presunta “arroganza” americana verso il dossier nucleare iraniano, ha infine deciso di sedersi al tavolo e di benedire l’accordo, ben capendo che questo sarebbe stato ineluttabile viste le condizioni di emergenza geopolitica in cui versa il Medio Oriente. La Cina, che non ama i game changers in politica internazionale — e questo accordo lo è — ha espresso la propria contrarietà ma non ha voluto impedire i passi in avanti degli ultimi mesi.
Insomma: gli Stati Uniti hanno deciso che dopo quasi un secolo di sicurezza energetica e politica delegata alla relazione speciale con l’Arabia Saudita in Medio Oriente, adesso è arrivato il turno di riportare in campo l’Iran. Già oggi Teheran è impegnata a contrastare con i suoi stivali sul terreno l’avanzata dell’Isis tra Siria e Iraq e a contenere la minaccia che gli Shabaab somali portano anche attraverso le scorribande dei “pirati”.
La scomposizione del Medio Oriente è iniziata. Per capire come si ricomporrà in futuro bisognerà sempre di più guardare a ciò che accade a Teheran.