La crisi economica non dà tregua agli Stati Uniti. Obama annuncia guerra alle lobby, dichiara di voler attuare la riforma della sanità e di voler tassare i redditi più alti. Così, dopo aver varato il maxipiano economico, il neo presidente risponde alla crisi. «L’America tornerà più forte di prima» ha dichiarato settimana scorsa. «Obama è stretto tra due esigenze» spiega a ilsussidiario.net Massimo Gaggi, inviato del Corriere della Sera e autore de “La valanga. Dalla crisi americana alla recessione globale”. «Far capire all’America e al parlamento quanto la situazione è effettivamente difficile – ha parlato anche di “rischio di catastrofe” e di “avvitamento della crisi” – e al contempo non deprimere la fiducia».
Obama, di fronte ad una crisi che si aggrava e a prospettive che appaiono sempre più incerte, ha confermato di voler intraprendere con decisione la via delle riforme qualificanti del suo programma elettorale. Una prova di forza, insomma.
Obama sta cercando un equilibrio tra il pessimismo di un Carter e l’ottimismo senza fondamento di un Hoover, che durante la Grande depressione diceva: la ripresa è dietro l’angolo. E ha lanciato un messaggio reaganiano non nella sostanza politica ma nei toni. Reagan arrivò nel mezzo della recessione e puntò tutto sulla fiducia e sugli sgravi fiscali. Obama è stretto tra due esigenze: far capire all’America e al parlamento quanto la situazione è effettivamente difficile – ha parlato anche di “rischio di catastrofe” e di “avvitamento della crisi” – e al contempo non deprimere la fiducia. Ecco perché davanti al Congresso ha cambiato i toni.
“L’America tornerà più forte di prima” ha detto, attirandosi non poche critiche da parte di chi vuole risposte pronte alla crisi anziché promesse di riforme.
Ma ha basato la sua intera campagna elettorale sul tema della speranza americana. La scommessa è riuscire a cambiare lo stato d’animo degli americani nel bel mezzo di una situazione nella quale i dati negativi continuano ad affluire tutti i giorni. Le analisi della Fed portano a ritenere che la disoccupazione continuerà a crescere per tutto il 2009. Le previsioni sono fino a due milioni di posti di lavoro in meno. Nonostante questo con la sua manovra, ha detto, “salverà” 3,5 milioni di posti, portando più soldi agli Stati e alle città, dove molti sindaci darebbero il via a migliaia di licenziamenti, cominciando da poliziotti, pompieri e insegnanti di scuole pubbliche. È un messaggio per la gente, non per Wall Street.
All’inizio della crisi americana, l’Europa è sembrata preoccupata delle conseguenze, ma dall’altro lato ha mostrato una sorta di soddisfatto revanchismo: “il nostro modello era migliore, ne abbiamo la dimostrazione”. Come giudica questa reazione?
L’Europa ha motivo di dire che ha seguito un modello finanziario meno aggressivo, è vero. E le banche italiane sono di fatto meno esposte. Ma la Gran Bretagna è in una situazione uguale o peggiore a quella americana, in Germania non c’è la bolla immobiliare ma le banche si sono rivelate altrettanto esposte; la Svizzera, a sentire William Gale, vice presidente della Brookings Institution, rischia la bancarotta perché ha una sola banca, Ubs, con un patrimonio superiore al Pil dell’intero paese. E la Spagna ha una bolla immobiliare altrettanto grave.
La salute dell’Europa non autorizza ad essere troppo ottimisti, dunque.
Senza dare un giudizio di merito – se cioè questo è accaduto per prudenza o per arretratezza sul tema dell’innovazione finanziaria – non c’è molto da festeggiare. Sì, dal punto di vista teorico l’Europa non ha commesso certi errori che ora paga anche a causa degli Usa, però le sue debolezze ci sono tutte e le possibilità di ripresa sono tutte da verificare.
L’Italia, si dice, ha subito una crisi della quale ha poche o nulle responsabilità. Non le resta che attendere la ripresa della domanda mondiale?
L’Italia non può limitarsi ad aspettare che riparta la domanda mondiale dei suoi prodotti. Ha inefficienze di sistema spaventose e deve lavorare per recuperare competitività su tutti i fronti. L’America ha tanti difetti ma si sta preparando molto bene al periodo che ci attende, perché sta facendo di tutto per ridurre i costi ed essere competitiva, se non verso l’Asia, almeno verso le altre economie del centro e sud America. Per gli italiani, invece, che vogliono esportare negli Usa sta diventando sempre più importante produrre in loco, perché i costi di produzione italiani sono troppo elevati.
Due precedenti suoi libri si intitolavano: “La fine del ceto medio e la nascita della società low cost” e “Piena disoccupazione. Vivere e competere nella società del quaternario”. Cosa è cambiato nell’attuale situazione rispetto a quando li ha scritti?
Già allora si parlava di un cambiamento delle regole del gioco, ma non si immaginava una crisi così profonda, legata alla finanziarizzazione dell’economia e al suo tracollo. Questo cambia molte cose, per esempio nel mercato del lavoro. In “Piena occupazione” parlavo di una serie di servizi ad alto valore aggiunto che si sono sviluppati negli Stati Uniti, ma “ritagliati” su un’economia ricca. Ora la crisi sta riportando quell’evoluzione verso soluzioni più tradizionali, compresa una tendenza a rivalutare la manifattura a scapito delle produzioni a basso costo. Ma la forte terziarizzazione dell’economia rimane.
E l’Europa?
L’Europa rimane per gli Stati Uniti un punto di riferimento storico e culturale fondamentale, e anche politico per quanto riguarda l’equilibrio internazionale. Ma sul piano economico la partita principale si gioca attraverso il Pacifico: gli Usa hanno chiesto alla Cina di continuare a comprare i titoli del Tesoro americano. I diritti umani sono importanti, sembra esser stato il senso del viaggio in Cina di Hillary Clinton, ma il dialogo strategico tra i nostri paesi va rilanciato. Anche se, devo dire, siamo in presenza di una situazione di fatto anomala.
Teme il prodursi di nuovo squilibri?
L’ “aiuto” della Cina è necessario agli Stati Uniti perché il piano di sostegno comporta una dilatazione della spesa, ma è anomala perché abbiamo un paese in larga misura povero che utilizza il suo surplus per finanziare il debito del paese più ricco del mondo. Sì, questo potrebbe generare nuovo squilibri. La Cina deve poter utilizzare parte del surplus per sostenere gli Usa ma parte lo deve reinvestire all’interno per creare protezione sociale e sviluppo. Anche i cinesi devono poter alimentare il circolo dei consumi. Che si sono ridotti.
Perché ha scritto “La valanga”?
Il 2008 resterà l’anno che ha cambiato profondamente il capitalismo contemporaneo. Non dico che lo rimetterà in discussione, perché i meccanismi del mercato sono insiti nella natura umana, ma porterà ad una sua profonda revisione. Gli Usa sono impegnati in una “guerra” che non è stata dichiarata, non è stata combattuta e non ha lasciato rovine fumanti in giro, ma rimane come la più vasta distruzione di ricchezza mai sperimentata dal genere umano. Essa avrà un impatto sociale e industriale molto forte. Ci sarà meno attenzione per il lusso e i consumi individuali, e un rilancio dell’economia delle reti, a cominciare dall’energia, sui temi del risparmio energetico e delle energie alternative.