Quando in un Paese piccolo e poverissimo accadono cose pericolose per il mondo intero, significa che qualche grande potenza lo ha permesso o voluto. La Corea del Nord, nazione di 25 milioni di abitanti dotata di un arsenale nucleare che oggi fa paura, ne è un evidente esempio.
Se disegnassimo sulla carta geografica un cerchio con centro in Pyongyang e raggio di 2000 chilometri, vi vedremmo contenuto l’intero Giappone, la Corea del Sud, il Mar cinese orientale, Taiwan e la parte più popolata e ricca della Cina, incluse Pechino, Shanghai e Canton. Non è difficile immaginare quanto la collocazione della Corea del Nord sia cruciale per gli equilibri geopolitici dell’estremo oriente.
Ma, più ancora del suo posizionamento, è importante sottolineare che la Corea del Nord è il più classico esempio di “Stato cuscinetto” tra due superpotenze. Da un lato la Cina (e, per quanto marginalmente, la Russia, che è spettatrice apparentemente distratta, ma molto interessata), dall’altro le propaggini estreme della sfera di influenza statunitense in estremo oriente: Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Solo ponendoci in questa logica possiamo comprendere la natura di quanto sta accadendo in quella delicata regione: la sfida, degna della miglior Guerra fredda, tra Pechino e Washington.
L’escalation nucleare della Corea del Nord è l’esito di una strategia di lungo periodo messa in atto da Pechino già decenni fa, che ha fatto comodo, in fondo, pure agli americani, i quali, grazie al buffer nordcoreano, hanno potuto giustificare la presenza in Corea del Sud di 30mila soldati, senza contare aerei, navi e il sistema anti-missilistico THAAD. Tenendo conto di questo contesto, appare chiaro che i dittatori nordcoreani non siano affatto pazzi imprevedibili, ma astuti calcolatori con un preciso progetto in testa: capitalizzare la propria centralità strategica. Ovviamente a scapito del proprio popolo, ridotto in condizioni di estrema povertà e di costante violazione dei diritti umani.
Insomma, se fino a poco tempo fa tutto ciò poteva far parte delle regole della realpolitik, ora il gioco si è fatto pericoloso e rischia di sfuggire di mano agli stessi burattinai che lo hanno voluto, permesso e gestito.
Questo punto di partenza è cruciale, perché rovescia l’attenzione dalle mosse di Kim Jong-un a quelle di Donald Trump e Xi Jinping. Alla luce di quanto detto sopra, è chiaro che nessuno degli attori in gioco (per motivi diversi) ha la minima intenzione di minare lo status quo, ma certamente tutti sono chiamati a porre in atto i correttivi necessari.
Infatti, dal 2011 in poi il regime nordcoreano ha aumentato esponenzialmente la propria aggressività, producendo circa 40 kg di plutonio (sufficienti a costruire 12 testate nucleari) e testandone l’installazione su missili a vario raggio (sembra che alcuni di questi possano raggiungere la California), generando un progressivo cambiamento della posizione cinese, meno accondiscendente nei confronti del regime di Pyongyang.
L’atteggiamento della Cina non è secondario: è, anzi, la reale chiave di lettura dello scenario. Infatti, dalle decisioni di Pechino deriva oggi la sopravvivenza dello stesso regime nordcoreano, che dipende quasi interamente dal suo grande alleato: per foraggiare il proprio impianto simil-socialista, basato su un’assistenza quasi totale alla popolazione (o meglio alla parte “allineata”) per evitarne scontento e rivolte, Kim ha disperato bisogno delle forniture cinesi di soldi, armi ed energia, nonché delle vitali relazioni commerciali con Pechino (praticamente le uniche che ha). Ovviamente, la Cina ha un interesse strategico in questa assistenza: la Corea del Nord, come si diceva, è infatti l’unico ostacolo che separa i confini cinesi dai soldati americani dispiegati in Corea del Sud.
Sembra quindi che il futuro dipenda dalle scelte cinesi e dalla sua capacità di imporle. Non è un caso che Trump faccia molto affidamento sulla Cina. E non sbaglia: Pechino non potrà far finta di niente — e in effetti non lo sta facendo — perché le minacce a Corea del Sud e Giappone sono reali; ma nemmeno potrà assecondare in toto questi ultimi (e i loro alleati statunitensi) supportandone le politiche intransigenti (anche se la Corea del Sud con Moon sembra voler cambiare strategia). In entrambi i casi, infatti, lo status quo rischierebbe di esplodere, generando più problemi che vantaggi: un possibile conflitto nucleare, un flusso di rifugiati insostenibile per la Cina e per la stessa Corea del Sud, il venir meno di una ragione che giustifichi un dispiegamento militare senza pari nel cuore del Pacifico per gli Usa.
Fino a quando lo spregiudicato Kim Jong-un riuscirà a mantenere la propria centralità in questo delicato equilibrio di forze? Probabilmente ha già passato il limite del ragionevole, scontentando tutti, e le ripetute voci di un suo preparativo di fuga da Pyongyang, con relativo salvacondotto internazionale, sembrerebbero confermare questa ipotesi.
Comunque, se nel XIX secolo l’Asia (centrale) fu teatro del “Grande Gioco” tra impero russo e britannico, l’inizio del III millennio sembra volercene proporre un altro: cambia (di poco) lo scenario, cambiano i giocatori, ma l’obiettivo finale sembra lo stesso, il dominio del mondo.