L’agenzia Reuters riferisce che le nuove sanzioni statunitensi contro la Russia stanno complicando la sindacazione di un prestito di 5,2 miliardi di euro (6,13 miliardi di dollari) che Banca Intesa ha concesso ad un consorzio formato dal trader svizzero Glencore e Qia (Qatar Investment Authority) per l’acquisizione di una quota del gigante petrolifero russo Rosneft.
Vediamo, in “pillole”, di che si tratta: la Russia, per le gravi difficoltà economiche derivanti dalla contrazione del prezzo del petrolio sui mercati internazionali e per effetto delle sanzioni del 2014, ha visto negli ultimi anni ridurre del 27% gli utili. In questo contesto il presidente Putin, per migliorare la situazione economica del paese, ha autorizzato la cessione di una quota del 19,5% dell’azienda statale Rosneft per un valore totale di 11,3 miliardi di euro.
L’operazione è stata conclusa nel mese di dicembre 2016 da un consorzio formato dalla svizzera-britannica Glencore (azienda leader del trading e del commercio delle materie prime che detiene il 60% mondiale del commercio di minerali) e dal fondo sovrano qatariota Qia. Dell’ammontare totale del prestito, Banca Intesa ha finanziato 5,2 miliardi di euro a fronte di solide garanzie.
Siccome il governo russo voleva concludere l’operazione entro il 2016 la banca russa VTB ha concesso un “prestito ponte” in attesa del finanziamento di Intesa. A sua volta Banca Intesa, per coprirsi dal rischio inerente l’operazione — come è da prassi — ha diluito la propria esposizione suddividendola tra un pool di 15 banche che hanno aderito ad un patto di sindacato, cioè appunto un contratto di suddivisione del rischio.
Però, successivamente all’accordo, il 4 agosto il Congresso degli Stati Uniti ha comminato ulteriori pesanti sanzioni alla Russia. Ciò comprende limitazioni alle attività di cinque aziende russe produttrici di gas e petrolio: Lukoil, Gazprom, Gazprom petrolio, Surgutneftegaz e appunto Rosneft (il più grande produttore di petrolio nel mondo).
Di conseguenza, siccome il patto di sindacato non era concluso alla data di emanazione delle sanzioni, le banche americane e francesi ci hanno “ripensato” e hanno sospeso la loro partecipazione dicendo che devono consultare i loro organi di vigilanza. Il risultato è che Banca Intesa sostiene sulle sue spalle il rischio intero del finanziamento.
La domanda che si pone è quindi: come Intesa si è trovata in questo frangente? La sua iniziativa è comprensibile: quando ha deciso l’operazione, un disgelo tra Mosca e Washington — per effetto dell’elezione di Trump — era cosa certa. Ma come sappiamo, le cose non sono andate come previsto: il “Deep State” ha di fatto esautorato il presidente di alcuni suoi poteri e, con uno stratagemma, ha imposto la propria linea politica prescrivendo ulteriori sanzioni a Mosca.
In questo contesto, crisi ucraina e hackeraggi russi sarebbero la causa delle sanzioni ma solo formalmente: come riferito dalla Cnn, più di una dozzina di major americane hanno fatto forti pressioni sui membri del Congresso — sia autonomamente che attraverso la lobby — perché le sanzioni fossero fatte secondo le loro indicazioni. Di fatto, le norme sanzionatorie sembrano fatte apposta per privilegiare le aziende americane e danneggiare quelle russe. Ma non solo: ostacolando l’ingresso delle major russe in nuovi progetti internazionali e creando divieti a quest’ultime per l’accesso alle moderne tecnologie upstream, limitano soprattutto i grandi progetti in essere con le aziende europee.
Da parte sua, la Ue — consapevole di tutto questo — ha cercato di alleggerire le sanzioni ed in parte ci è riuscita: ad esempio la possibilità di partecipazione di aziende russe alle joint venture petrolifere internazionali è aumentata dal 10% al 33%. La forte critica di Bruxelles è ben condensata nella frase del ministro degli esteri tedesco Martin Shafer riportata sul Washington Post: “E’ inaccettabile per gli Stati Uniti utilizzare le sanzioni possibili come uno strumento per servire gli interessi delle politiche industriali statunitensi”. In altri termini, ciò che preme ai giganti estrattivi americani — in un’ottica di guerra commerciale per il monopolio delle risorse — è la vendita all’Europa del costoso gas liquefatto scisto ottenuto dalla frammentazione delle rocce e proveniente dagli Stati Uniti.
Dopo queste opportune precisazioni, rispondo alla domanda principale: Banca Intesa rischia realmente di vedersi pericolosamente esposta? La risposta è no, il governo italiano si è già espresso in questo senso: l’operazione è legittima e non viola le sanzioni. Oltretutto, la valutazione del governo italiano coincide con l’opinione più diffusa tra gli analisti secondo la quale le nuove limitazioni — seppur limitano la concessione di prestiti denominati in dollari — sono riferite alle operazioni effettuate dopo l’entrata in vigore delle nuove sanzioni — vale a dire dopo il 2 agosto 2017 — e non a quelle concluse precedentemente, già concordate ed in attuazione.
Quindi, la reticenza di alcune banche appare scaturire essenzialmente per un eccesso di zelo di ordine politico più che per rischi reali derivanti dall’operazione. In definitiva, vogliono fare di più per non inimicarsi il governo degli Stati Uniti. Così nell’incertezza dell’interpretazione di certe norme volutamente lasciate “nebulose” e in presenza di una situazione di incertezza, hanno preferito prendersi una “pausa di riflessione”.
I dubbi comunque si diraderanno definitivamente quando a breve il ministero delle Finanze Usa chiarirà queste “zone d’ombra”. Nell’improbabile ipotesi che ciò non bastasse, c’è da scommettere che il governo italiano farebbe i passi più adeguati per utilizzare l’ultima chance disponibile. Bisogna sapere che Trump si è lasciato un asso nella manica: è facoltà del ministero del Tesoro degli Stati Uniti dare “licenze in deroga” onde permettere una particolare transazione o alcuni tipi di operazioni che sarebbero altrimenti proibite dalle sanzioni. Quest’ultima possibilità è offerta per effetto di una modifica che Trump è riuscito opportunamente a far inserire nel testo definitivo di legge.