Fragili ma non galleggianti

Lasciare spazio alle religioni è quanto di più laico ci possa essere. Uomini con il cuore aperto alla realtà, capaci di desiderare, sono un fattore di bene

La realtà ci colpisce di continuo restituendoci una grande evidenza, non siamo onnipotenti. Facciamo di tutto per difenderci dalle malattie e da ogni possibile pericolo, e poi un giorno ci troviamo coinvolti in una sparatoria o in un accoltellamento e rischiamo di perdere la vita.

Viviamo nel benessere, tanto da poter dire che non ci manca niente, ma il più delle volte non riusciamo a darci quel po’ di serenità che ci manca tanto. Vorremmo vedere i nostri figli felici, realizzati, ma non siamo in grado di dare loro qualcosa che appaghi i loro desideri. Veramente non bastiamo a noi stessi, non siamo così potenti da riuscire a darci ciò di cui abbiamo bisogno.



È paradossale che proprio in un tempo in cui le conoscenze e le tecnologie a esse connesse crescono a dismisura, vediamo al contrario abbassarsi tragicamente la percezione di una possibile positività del nostro esistere. Recentemente un ragazzo lasciava appeso ad un albero natalizio questo messaggio “Vivere è diventato estenuante, e non ho più molta voglia di farlo”. Siamo smarriti, impauriti. Ultimamente incapaci di vivere, avvertiamo confusamente la nostra fragilità, ma non riusciamo a coglierne il senso.



Il recente Rapporto Censis sulla situazione del nostro Paese, pubblicato il 6 dicembre dell’anno ormai trascorso, così descrive la “sindrome italiana“: “La sindrome italiana è la continuità nella medietà, in cui restiamo intrappolati. Il Paese si muove intorno a una linea di galleggiamento, senza incorrere in capitomboli rovinosi e senza compiere scalate eroiche. La spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata. Negli ultimi vent’anni il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto del 7,0%”.

E a conferma di questa mediocrità galleggiante nella quale viviamo, il Rapporto fornisce un dato sul sentimento prevalente negli italiani relativo alla possibilità di miglioramenti sociali . “L’85,% degli italiani è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale”. Galleggiare non ci fa vivere bene, “non basta più”, come ancora sottolinea il Censis, che così prosegue: “Emerge (in Italia) l’immagine di un popolo polverizzato e con uno scarso senso della storia, in un Paese che sente l’affanno del rimettersi in movimento e che prova a muovere l’acqua non solo per galleggiare e sopravvivere, ma anche per muoversi in nuove direzioni”.



Ma per provare a muovere l’acqua in nuove direzioni abbiamo bisogno di energia. Abbiamo bisogno di uno sguardo positivo. Noi, che siamo dei poveri diavoli impotenti, arrabbiati e rissosi, sempre alla ricerca del colpevole di turno. Noi, che in questo inizio d’anno, ci facciamo gli auguri, accompagnandoli con un triste “speriamo” “sperem”, sussurrato e affidato alla precarietà del caso. Noi così impauriti dalla vita, in fondo cosa possiamo fare se non continuare a galleggiare? ( e questo in verità stiamo imparando a farlo sempre meglio).

Prima di arrenderci a un triste cinismo potrebbe però valer la pena di provare a capire qualcosa di più di questa fragilità, di questa incompiutezza, che ci fa soffrire, che ci fa anche arrabbiare, ma che in fondo potrebbe essere l’antidoto più potente alla rinuncia e al galleggiamento. Perché, è vero, in fondo noi siamo fragili proprio come le foglie che cadono in autunno, come “la povera foglia frale” di leopardiana memoria che “lungi dal proprio ramo” vaga senza meta. Ma don Giussani, di fronte al paragone delle foglie secche cadute d’autunno, “uno dei paragoni – lui sottolinea – più usati per identificare la fragilità e l’enigmaticità ultima della vita umana”, aggiunge che questa “intuizione intelligente” e questa “emozione drammatica” con cui l’uomo guarda la propria vita, questa esperienza di fragilità e di enigmaticità, si identifica con quello che lui chiama senso religioso.

Ecco il punto! Nelle fibre della nostra fragilità abita il fattore religioso. Abita il bisogno di qualcuno che sia in grado di farsi compagnia potente alla nostra impotenza. La nostra debolezza diventa il luogo da cui può scaturire il bisogno di Dio. E come accade quando ci si innamora, e “quella” persona entra nella vita come un fattore nuovo che riaccende le energie, così, se nella vita accade che Dio entri come possibile interlocutore, come ipotesi di risposta alla nostra domanda di senso, allora il desiderio può riaccendersi e l’avventura dell’ esistere ricominciare, possiamo forse smettere di galleggiare e ricominciare a nuotare in mare aperto.

Questo in fondo è il contributo più grande che le religioni portano nel mondo: sono il segno visibile che nel cuore dell’uomo alberga il bisogno di Dio. Le religioni, tutte le religioni, documentano che abbiamo bisogno di qualcuno che sia all’altezza di quel desiderio infinito, incolmabile, che ci fa sentire così fragili e impotenti, che ci fa continuamente sperimentare che non bastiamo a noi stessi. Come aveva detto papa Francesco nel suo viaggio in Indonesia del settembre scorso: “La radice comune a tutte le sensibilità religiose è una sola: la ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che l’Altissimo ha posto nel nostro cuore”. E lasciare spazio alle religioni è quanto di più laico ci possa essere. Uomini con il cuore aperto alla realtà, capaci di desiderare, sono un fattore di bene e di costruttività per tutti.

Diceva ancora don Giussani in un’intervista: “Il desiderio accende il motore dell’uomo”. Ben venga pertanto una società capace di stimare il fenomeno religioso. Una società di uomini fragili, ma perennemente in ricerca e in attesa. E proprio in questo nostro mondo, dentro questa società, continua ad accadere che il Mistero di Dio si renda incontrabile, toccabile, sperimentabile. È accaduto 2000 anni fa a Betlemme e da allora non smette di riaccadere. E uomini come noi, fragili ma non galleggianti, raccontano con la loro vita il miracolo dell’incontro con un Dio che si è fatto uomo e ha cambiato la loro esistenza.

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