Diciamo la verità: per una volta ci credevano in pochi. Anche il sottoscritto che – a mo’ di retroscena – aveva anche preparato una sorta di epitaffio per la squadra che fu. Tutto cancellato da una notte sostanzialmente perfetta: al Barcellona riesce la rimonta sul Milan e si spalancano le porte dei quarti di finale. Alzi la mano chi ci avrebbe pensato: pochi, appunto. Anche se alla vigilia i commenti erano cauti: “Sono sempre i più forti”, “Non c’è Pazzini”, e via discorrendo. Quello di Galliani che camminava lungo le Ramblas ripetendo come un mantra “Sono dei mostri” sembrava più un rito scaramantico che timore vero, e i propositi di Remuntada catalana gli ultimi singhiozzi di un motore inceppato e prossimo alla rottamazione. Ci sbagliavamo, al netto dei demeriti del Milan; ma nel profondo si pensava che davvero questo carrozzone blaugrana avesse finalmente trovato il fango a fargli affondare ruote, colori e spettacolo. Non è stato così. Mi sia concesso un parallelo: la serata di ieri ha ricordato la partita nella quale si è capito che questo ciclo sarebbe iniziato. Bisogna tornare indietro di quattro anni: 2 maggio 2009. I blaugrana vanno al Bernabeu, ospiti del Real Madrid. Hanno 4 punti di vantaggio nella Liga, ma di lì a pochi giorni si giocano la finale di Copa del Rey e soprattutto il ritorno della semifinale di Champions League a Stamford Bridge. Guardiola è al primo anno in panchina: può trionfare, o perdere tutto come era accaduto al Bayer Leverkusen nel 2002. A Madrid la tensione si sente eccome: passano 14 minuti, Sergio Ramos disegna un traversone dalla destra, Higuain impatta di testa: 1-0. Il Bernabeu esplode, il Barcellona in quel momento ha un solo punto di vantaggio e il morale a pezzi. Ed è allora che nasce la leggenda blaugrana: la squadra produce una reazione senza eguali. Partono in otto, si presentano davanti a Casillas e cominciano a schizzare da tutte le parti, creando una, cinque, dieci occasioni. All’intervallo è 3-1, ma potrebbero essere tre in più. Arrivano nel secondo tempo: finisce 6-2, il Real Madrid viene umiliato da una lezione di calcio di un gruppo che, pensate, nelle prime partite dell’era Guardiola aveva segnato zero gol per un punto in classifica. Poco dopo arriverà Stamford Bridge e la magia di Iniesta, e l’inizio della storia. Che questa partita sia l’abbrivio per un nuovo ciclo? Non è dato saperlo, ma certo il Barcellona ha saputo stupire per l’ennesima volta. Era una squadra ferita, abbattuta anzi da due sconfitte consecutive contro il Real Madrid, che per la prima volta dal 2008 aveva chiuso il conto stagionale in attivo; a San Siro aveva dato l’impressione di essere stanca, prevedibile e pure un po’ sfiduciata. Certo l’assenza di Tito Vilanova era pesante (a proposito: il tecnico torna a Barcellona il 25 marzo, anche se il club non ha dichiarato nulla in proposito), ma non tale da giustificare un simile disastro. Tutto ribaltato, con anche la cartolina firmata come ricordo:
Il terzo gol, quello dell’avvenuta qualificazione, lo mette a segno David Villa, uno che troppo presto è stato dato per archiviato e fuori dal progetto, e che invece quando c’è da segnare i gol pesanti c’è sempre. A proposito, ricordate l’azione: anticipo di Mascherano sulla trequarti, Iniesta tocca di prima per Xavi, che di prima apre per El Guaje: controllo sul buco di Constant, e palla sul palo lontano. Non è un caso che il Camp Nou abbia tributato all’asturiano un’ovazione come forse nemmeno a Leo Messi nei giorni migliori: è il segno di una giostra che torna a girare implacabile, e adesso guai a chi ci salirà (venerdi il sorteggio dei quarti). Innanzitutto tutti coloro che avevano deprecato il gioco del Barcellona: puntuali come un orologio svizzero, alla prima partita persa male si erano lanciati con caffè in una mano e sigaretta nell’altra in una spiegazione ragionata e filosofica del perchè il tiki-taka fosse noioso e sorpassato, preferendo invece l’apertura di cinquanta metri, il gol sporco e la lotta con il coltello tra i denti a metacampo. Sono gli stessi che, magari, oggi torneranno a celebrarlo come l’ottava meraviglia del mondo. Chi non ha mai smesso di farlo si limita a dire: tutte le squadre possono giocare male prima o poi, e tutti i cicli sono destinati a finire. Ma non oggi.
(Claudio Franceschini)