Italia, si volta pagina. Comincia l’epoca di Cesare Prandelli, si apre un periodo tutto da interpretare, carico più di rischi che di certezze. Si riparte dopo un fallimento storico al Mondiale, di cui aspettiamo ancora di scoprire i padri: Giancarlo Abete se ne è assunto la responsabilità restando al suo posto; Marcello Lippi con un addio che era noto ormai da mesi. Si riparte da una squadra che dovrà essere rifondata fin dalle radici più profonde, perché il fallimento dell’Italia è stato il fallimento di tutto un movimento calcistico. Un movimento che, dopo aver metabolizzato Calciopoli, non è stato in grado di rinnovare se stesso, protetto dal paravento offerto da Berlino 2006. Nelle strutture, per esempio, visto che si continua a giocare in stadi che fanno una pessima figura a confronto di tutt’Europa (con l’unica eccezione rappresentata dalla Juventus, che ha investito il suo futuro sul nuovo impianto).
Da qui riparte Prandelli e dovrà fare tutto di corsa. Perché il 10 agosto ci sarà la prima amichevole (con raduno il giorno precedente), perché il 3 settembre sarà tempo di qualificazioni europee. Di corsa e in affanno perché le società già mugugnano per un test in piena estate, nel pieno della preparazione estiva, e già guardano storto non appena si comincia a parlare di stage. Nazionale ancella del campionato e non viceversa, come accade nel resto del mondo. Un ostacolo e non una risorsa per il pallone intero: l’esatto contrario di quanto si verifica in Germania, come ha lucidamente raccontato in questi giorni Oliver Bierhoff chiedendosi (retoricamente) se in Italia saremmo capaci di aspettare la maturazione di giovani, come hanno fatto loro con Ozil.
Nelle società, poi, incapaci non diciamo di programmare, verbo pressoché ignoto, ma anche di vivere il presente: allenatori esonerati con esecrabile facilità, vivai messi in secondo piano e pieni di stranieri acquistati a basso costo, prime squadre cariche di stipendi pesanti e non di talento. Nei giocatori, infine, perché il tonfo della Nazionale non ha fatto altro che seguire le cadute dei club, sempre in affanno nelle competizioni europee (tranne la non-italiana Inter), a dimostrazione di come il nostro calcio si sia tremendamente impoverito dopo gli eccellenti Anni Ottanta e Novanta.
Sarebbe possibile se ci fosse una Federazione forte, in grado di imporre la riforma dei campionati – guardate quante società stanno saltando in aria -, sfrondando i rami secchi e salvando la sostanza, con un occhio di riguardo alla valorizzazione del prodotto interno. Un’eventualità di cui dubitare in partenza, vista la debolezza della presidenza contrapposta alla famelicità dei club. Per questo Prandelli ha bisogno del migliore in bocca al lupo per la missione in cui si sta imbarcando. Poi ci sarà tempo per parlare della squadra azzurra che verrà.