La fatica del dialogo tra le parti per unificare la Siria continua, ma per ottenere risultati bisogna avere pazienza, tanto più che un elemento destabilizzante sta cercando di riguadagnare la scena. Lo Stato islamico, infatti, che oggi è comunque molto più debole di prima, è nemico storico di HTS e potrebbe coalizzare intorno a sé i jihadisti scontenti di Al Jawlani. Per questo, spiega Bernard Khoury, direttore italo-libanese del Centro studi sul mondo arabo Cosmo, è importante far confluire le milizie in un unico esercito. La Siria sta definendo anche le sue regole economiche. Ha messo al bando i prodotti di Russia, Iran e Israele, e aspetta l’aiuto della Turchia, dell’Occidente ma anche di Qatar e Arabia Saudita.
Lo Stato islamico starebbe preparando attentati a Damasco e Aleppo per rientrare in scena. Un pericolo serio per il nuovo corso del Paese?
Per capire la situazione bisogna rifarsi a quando l’Isis (ora IS, lo Stato islamico) arrivò in Siria. Prima agiva solo in Iraq, poi cambiò nome e giunse anche nel Paese confinante per partecipare alla lotta armata contro gli alawiti, considerate forze infedeli. Nel territorio siriano, però, c’erano già formazioni di carattere jihadista autoctone, mentre l’Isis, grazie anche ai foreign fighters, era composto di elementi provenienti da diverse nazioni. Si tratta di gruppi che oggi vediamo al potere, perché Hayat Tahrir al-Sham, HTS, guidata da Al Jawlani, era una delle principali organizzazioni jihadiste, legata ad al-Qaeda.
Cosa è accaduto all’interno del movimento jihadista?
Lo scontro che si era prodotto tra al-Qaeda e l’Isis per l’egemonia nell’ambito jihadista aveva fatto nascere contrasti anche in Siria. Tra loro ci sono ancora conti aperti. Sono formazioni nemiche. E il fatto che Al Jawlani tolga l’abito da jihadista, da combattente, per mettersi in giacca e cravatta, non fa altro che legittimare agli occhi dell’IS che HTS è il nemico pubblico numero uno. Ecco perché tra le varie sfide che le nuove autorità si trovano ad affrontare vi è indubbiamente quella dello Stato islamico.
Ma l’ex Isis ha ancora un suo spazio di azione?
L’organizzazione ha ripreso l’attività nella zona nota come Badia, che è il deserto siriano, di cui si parla poco, ma che quotidianamente è teatro di operazioni, anche se limitate. Nel nord-est della Siria, la coalizione internazionale continua a mantenere una pressione su di loro, anche con attacchi mirati aerei. Siria e Iraq, inoltre, stanno cercando di fare in modo che il loro confine non sia più poroso come prima, per evitare l’ingresso di rinforzi dello Stato islamico. Ciò non toglie che nella zona di Badia ci siano dei tentativi da parte di elementi residui di minacciare il potere centrale. È anche vero che tutti i poteri costituiti hanno spesso sfruttato e strumentalizzato la minaccia dell’IS per legittimarsi a livello interno e richiamare l’attenzione della comunità internazionale. Le capacità dello Stato islamico sono ridotte rispetto al passato, non costituiscono per ora una vera minaccia, ma potrebbero dar fastidio.
Se le nuove autorità non riuscissero a garantire la sicurezza del Paese, l’IS si potrebbe in qualche modo rafforzare?
Potrebbe raccogliere nuovi adepti, andando a pescare tra i delusi di HTS. Mi riferisco a quelle frange che sono un po’ più estreme, più conservatrici, e che magari rischiano oggi di vedere in Al Jawlani il leader di un gruppo moderato, mentre loro sostengono posizioni più intransigenti, come quelle dello Stato islamico.
Se qualche milizia si rifiutasse di sciogliersi e confluire nell’esercito siriano, potrebbe finire lì?
Sì, naturalmente questo vale per chi è di orientamento islamista, salafita, jihadista. In tale contesto gli attacchi israeliani, soprattutto nella zona di Quneitra, ma anche in altre aree della Siria, sono mirati a impedire che gli equipaggiamenti militari del vecchio regime cadano nelle mani sbagliate, tra le quali ci sono proprio quelle dell’IS, che almeno in prospettiva costituisce ancora un pericolo.
Uno dei nodi da sciogliere per costruire la nuova Siria è proprio quello delle milizie. L’operazione di scioglimento è iniziata?
Ci sono segnali molto timidi da questo punto di vista, che attualmente non lasciano margini a grandissime speranze. La comunità occidentale e anche alcuni Paesi dell’area si stanno spendendo molto, cercando di accreditare le nuove autorità. Il problema è che bisogna unificare un Paese che per 50 anni è stato abituato a stare unito con la forza, con il terrore, con la violenza da parte di una sola fazione, quella alawita, utilizzando l’arma dei servizi di sicurezza, della polizia segreta. Il Paese, d’altra parte, ha diverse anime: oltre agli alawiti ci sono i cristiani, i curdi, gli sciiti, i sunniti, alcuni dei quali hanno posizioni intransigenti. E in gioco ci sono attori esterni come gli USA, che sostengono i curdi, e la Turchia, che invece li osteggia, e altri protagonisti come il Qatar. Il gioco si fa complesso.
Ma c’è dialogo fra le parti?
Assolutamente sì, lo sforzo è continuo. Il fatto che Al Jawlani si metta in giacca e cravatta simbolicamente è un segnale molto forte. Inoltre, è stato ridimensionato il ruolo iraniano, fondamentalmente azzerato: c’è un attore in meno che mette zizzania.
Resta però il fatto che ogni gruppo sta ancora per conto suo. È così?
Non c’è ancora un esercito unificato, ma ci sono vicini. I curdi, ad esempio, sono ancora restii ad abbandonare le armi, vogliono mantenere una certa indipendenza. In generale, le milizie hanno dato la loro disponibilità a sciogliersi, ma bisogna trovare un accordo. E ogni buon accordo lascia l’amaro in bocca a entrambe le parti.
La Siria intanto ha bloccato le importazioni da Russia, Iran e Israele. Accettando il dollaro come moneta per le transazioni, che cosa significa? Accettare la moneta USA ci dà delle indicazioni sulla direzione che vuole prendere il Paese?
Indubbiamente sì. Bloccare le importazioni da Russia e Iran è un chiarissimo messaggio: c’è una rottura con il vecchio regime, di cui Mosca e Teheran erano i principali alleati. Un’inversione di marcia avvalorata dall’uso del dollaro come moneta di scambio: è una cosa che accade anche in altri Paesi della regione, per esempio in Libano.
Israele, invece, perché è stato escluso?
In questo caso credo che sia più un messaggio per le fazioni interne. Ci sono diverse voci secondo cui uno dei principali supporter dell’azione che ha portato alla caduta di Bashar al-Assad sia stato proprio Israele. Escluderlo dall’import lo vedo più come un tentativo per tenere a bada le voci interne, soprattutto in un momento delicato in cui bisogna invece trovare unità e unificare le forze tramite un solo esercito.
Ma il Paese va verso un’economia di che tipo?
L’economia va ricostruita. In tal senso sicuramente Qatar e altri Paesi della regione giocheranno un ruolo fondamentale, anche per agevolare la manovalanza siriana all’estero. In Libano, ad esempio, è molto presente. Pure la comunità occidentale, dopo quella araba, dovrà giocare un ruolo importante.
Tra i Paesi arabi chi sosterrà il nuovo governo, solo il Qatar, in virtù dei suoi legami con i turchi?
Il Qatar ma anche le monarchie del Golfo. L’Arabia Saudita è un Paese che avrà un ruolo fondamentale. Rientra nella sua strategia rafforzare la propria posizione nell’area. Ci saranno anche la UE e gli USA, che nella zona controllano alcune aree petrolifere.
In sintesi, allora, come sta andando il nuovo corso di HTS?
L’aspetto positivo è sicuramente l’andamento regolare delle consultazioni quotidiane, non soltanto a livello interno, ma soprattutto con i Paesi occidentali. È un aspetto molto importante, significa che si sta andando nella giusta direzione. Il timore principale riguarda la mancata unificazione delle fazioni e che queste possano rappresentare un’opposizione armata contro le nuove autorità, cavalcata dalle sacche residue dell’IS.
(Paolo Rossetti)
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