“L’inferno è già qui. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio”. Chissà se, lavorando al suo nuovo lavoro discografico (il concetto di album ormai è decisamente passato di moda), Marracash abbia incrociato la lettura di queste parole di Italo Calvino, grande scrittore e intellettuale, non certo un’icona del bigottismo cattolico italiano del Novecento. Eppure leggendo i testi delle sue nuove “canzoni” (e anche qui, “canzone” sembra ormai un termine antidiluviano), si può pensare, facendo uno sforzo creativo, accorgersi che l’inferno evocato da Calvino sia lo stesso inferno che il rapper della Barona (quartiere periferico di Milano che lo ha visto crescere) si trova a denunciare in quei versi pieni di disincantato realismo, non mancando di prendere dolorosamente posizione di fronte ad una società arresa ad “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo”.
Inoltre, il rapper, non perde occasione di una profonda autocritica personale, lanciando un messaggio verso i suoi “colleghi” dispensatori di parole spesso violente e disperatamente chiuse ad ogni rapporto umano pacificato, soprattutto tra i due sessi. Ecco le sue parole: “Questo è un momento delicato della storia. Ansia e inquietudine pervadono il futuro, in particolare quello delle nuove generazioni. Con ‘È finita la pace’ arriva l’accettazione, la consapevolezza della ‘bolla’ in cui tutto e tutti siamo immersi (…)”.
E poi l’affondo alla sua categoria: “I rapper accusano le donne di essere troie, ma sono loro, siamo noi le prime troie (…) Vengo da un contesto sociale in cui sentirsi vittima a volte può diventare un alibi, come se ci fosse una rabbia più giusta di un’altra. Parlo di questo, tutti abbiamo un punto di partenza, ognuno si deve prendere le proprie responsabilità e trovare la propria strada, e deve farlo senza vittimismo o sentendosi migliore di altri”.
Chiaro, no? Un bagno di umiltà e di realismo che difficilmente potremmo trovare in genere nei testi “rappati” dalla schiera di giovani che sentono nell’espressione di questo tipo di “musica” un modo per emergere e comunicare.
L’autore dell’articolo che state leggendo, per motivi prettamente anagrafici, non è appassionato al fenomeno musicale del rap e specialmente della trap (anche chiamarlo musicale ci sono difficoltà a considerarlo tale), ma è innegabile che, al netto del suo accompagnarsi molto spesso a fatti malavitosi e di disagio giovanile, sia un forte canale di comunicazione a cui le giovanissime generazioni metropolitane si affidano quasi come fosse un depositario di tutte le ansie, le contraddizioni, della disperante solitudine e della crisi dei rapporti interpersonali che vedono come unica scorciatoia la violenza verbale, fisica ed esistenziale.
E non è un caso che un uomo, un prete “di frontiera” come Claudio Burgio, impegnato da anni nel carcere minorile milanese del Beccaria e nella sua azione di accoglienza e recupero della Comunità Kayros, abbia individuato nel rap ciò che può salvare i ragazzi dal baratro del nichilismo più violento: “La frase- simbolo della nostra comunità è ‘Non esistono ragazzi cattivi’ (…). In realtà esistono ragazzi ‘captivi’, che in latino significa prigionieri, ostaggi. Vivendo con loro mi rendo conto che molti giovani in questo nostro tempo sono ostaggi di tante mode, di culture che li imprigionano, incattiviscono la loro anima e le loro capacità positive. (…). Molti rapper – e a Kayros ne sono passati in questi anni – usano spesso nei testi delle loro canzoni la parola ‘real’: i giovani e non solo loro, hanno fame di realtà, hanno bisogno di incontrare persone autentiche, vere”.
È una piccola citazione di riflessioni (vere e proprie provocazioni fuori dagli schemi del “sentir borghese”) di don Burgio e per chi volesse approfondire rimandiamo alla lettura dell’agile pamphlet “Da solo non basto” edito per il Meeting di Rimini nel 2023 da Itacalibri.
Insomma, a leggere i testi dei brani del nuovo Marracash, tutto si tiene e i titoli sono esplicativi a partire proprio da “È finita la pace” fino a “Soli” che al loro interno contengono flash di riflessioni sulla condizione umana personale e del mondo intorno che è difficile sottovalutare.
Pur nel continuo uso dello slang tecnologico, necessariamente legato al rapporto delle nuove generazioni con il mondo dell’elettronica, tanto da risultare bulimico e assoggettarsi ad una dittatura distopica che annulla tutto ciò che ti è diverso, il Marra sorprende nella sua denuncia, convincendo anche un ascolto dall’età più “anziana”. Per esempio nel brano “Mi sono innamorato di un IA” il verso “servi dei server” non è banale, per dirne uno dei molti che affollano le “declamazioni”.
Declamazioni, si, perché di musica ce n’è pochina, anche se la confezione (molto accurata effettivamente) strizza l’occhio sempre più al pop d’antan e al cantautorato storico.
È interessante che per confermare il messaggio rap occorra affidarsi alle note campionate di “Uomini soli” dei Pooh e di “Firenze (canzone triste)” di Ivan Graziani; un modo per evidenziare la ricerca di una melodia mantenendo la fedeltà al tema trattato:
“Escono di casa uno straccio
Senza neanche un abbraccio
Con il cuore d’intralcio
Quelli come me
Sai nei brutti sogni che faccio
Mi preparo all’impatto
E non c’è nessun altro
Che è triste più di me”
(da “È finita la pace”)
“Fuori è ancora buio pesto
Che bestemmio appena sveglio
Mangio male e poco sesso
Faccio tutto a basso prezzo
Lavori umili, vestiti sudici, in buchi umidi
Uomini ruvidi, a 30 ruderi, con occhi lucidi,
Signore aiutami! Signore! Signore! Signore!
Solo Dio sa come si vive qui
(con gli occhi sudici)
E se ne fotte!”
(da “Factotum”)
E sembra quasi di rivivere le atmosfere testoriane di “In Exitu”. Ma ci serve un’alternativa, una buona notizia per non fermarsi al “Dio che se ne fotte” o all’“inferno” di Calvino dal quale siamo partiti. Un’alternativa che valga per tutti, anche per Marracash.
Ci affidiamo, quindi, alle parole di Luigi Giussani: “Chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno? È accaduto questo! Vogliamo riprendere scostando la nebbia dell’abitudine dal nostro occhio e dal nostro cuore, vogliamo riprendere la grande notizia, il grande annuncio, il grande fatto, il grande avvenimento. Chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno? Il Destino, il Destino nostro si è reso Presenza, ma Presenza come padre, madre, fratello, amico. Come, mentre stavamo camminando, un compagno improvviso di cammino, un compagno di cammino: Emmanuele, ‘il Dio con noi’! È accaduto questo!”.
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