Mancano ormai pochissimi giorni all’inizio dei Giochi Olimpici Invernali di Sochi, che cominceranno venerdì con la classica cerimonia inaugurale. La spedizione azzurra vedrà anche la partecipazione di don Mario Lusek, cappellano della squadra olimpica italiana come già a Vancouver 2010 e nelle edizioni estive di Pechino 2008 e Londra 2012. Don Mario sarà uno dei pochi a vivere i Giochi Olimpici per tutta la loro durata. Un sacerdote al Villaggio olimpico per condividere con atleti e dirigenti della squadra azzurra la vita quotidiana: allenamenti, gare, gioie e delusioni. Quella del cappellano è una figura introdotta proprio dall’Italia e poi autorizzata dal Cio (Comitato olimpico internazionale), per parlare, condividere, confrontarsi e anche pregare. Una possibilità che è data agli azzurri delle Olimpiadi ma che non sarà invece offerta a quelli delle Paralimpiadi, che si disputeranno sempre a Sochi nel mese di marzo: il Cip e l’Ipc (i Comitati paralimpici italiano ed internazionale) infatti non prevedono la presenza di una figura di questo genere. Don Lusek commenta così al sito Redattore Sociale: “Su questo la competenza è evidentemente del Cip e degli organismi internazionali, ma da parte nostra c’è ovviamente piena disponibilità ad esserci; al di là della presenza o meno ai grandi eventi, comunque, è per noi una questione di attenzione verso un mondo, quello paralimpico, che è parte integrante dello sport nazionale italiano. Ricordo dei momenti molto belli con atleti olimpici e paralimpici insieme ai Giochi del Mediterraneo di Pescara nel 2009 (quando gareggiarono contemporaneamente, ndR)”. Prima però ci sono le Olimpiadi, e Lusek parla così del suo ruolo: “La mia partecipazione intende essere una testimonianza di vicinanza, una presenza amica che non invade spazi non propri e che non pretende chissà quali attenzioni: la vivo come fosse un piccolo spazio parrocchiale, incontrando moltissime persone. Da un lato c’è la dinamica umana: condivido la vita con i dirigenti, gli accompagnatori e gli atleti, quindi le loro attese, le ansie, le passioni, le gare; anche io mi entusiasmo, mi preoccupo, incoraggio, resto deluso, gioisco per il risultato sportivo”. Ecco dunque la condivisione dei momenti comuni, come il pasto e le iniziative di Casa Italia; in più, per chi vuole, c’è la disponibilità ad un confronto, ad un dialogo, ad un accompagnamento personale anche spirituale: “Nascono relazioni impensate”, confida don Mario. Alle Olimpiadi non mancano le figure religiose: “A Londra e Pechino le figure religiose impegnate sono state un’infinità. Esiste infatti uno spazio all’interno del Villaggio in cui vengono organizzate varie stanze per le diverse confessioni cristiane e le diverse fedi: si tratta generalmente di un luogo abbastanza marginale rispetto al vissuto del Villaggio, difficile che ci si capiti per caso, bisogna andarci appositamente, e ad animare tali spazi ci sono esponenti delle varie religioni che entrano nel Villaggio al mattino e vi rimangono per la giornata, per poi in serata ritornare negli hotel della zona che li ospitano”. Ma il cappellano azzurro fa molto di più:
“Io vado alle Olimpiadi come membro della famiglia olimpica azzurra, faccio parte del contingente del Coni, vivo all’interno del Villaggio con gli atleti e ne condivido luoghi e spazi. Grazie a questo le relazioni possono nascere dal semplice contatto umano e possiamo trovare con chi desidera dei momenti di spazio personale all’interno del vorticoso ritmo che si sostiene durante i Giochi”. Ci sono poi le celebrazioni della Messa, “per le quali cerchiamo di trovare un orario accessibile al più alto numero di persone”. Nascono persino occasioni di ecumenismo: “Ho un ottimo legame con un simpatico pastore luterano di lingua tedesca che segue non solo le squadre tedesca e austriaca, ma anche i nostri azzurri altoatesini che hanno maggiore familiarità con il tedesco; anche lui sarà a Sochi, come sempre cercheremo di trovare forme di collaborazione insieme”. Don Lusek, sacerdote della diocesi di Fermo, è direttore nazionale dell’Ufficio turismo, sport e tempo libero della Conferenza episcopale italiana, e per questo segue le Olimpiadi dall’interno: “Non avrebbe senso la mia presenza agli eventi internazionali se non ci fosse un altro tipo di lavoro sui luoghi dove si fa sport nel territorio: in questo sosteniamo le diocesi, e qualunque altra realtà con cui sia possibile collaborare, per affinare una pastorale dello sport che valorizzi lo sport come risorsa educativa. E’ vero che lo sport non è chiamato di per sé ad educare, ma di fatto compie anche questo, oltre ad allenare, orientare e accompagnare. In modo tutto particolare il lavoro è svolto con le 11 associazioni di ispirazione cristiana con le quali abbiamo ideato il Manifesto dello sport educativo. Il problema più grosso oggi è nello sport di base, dove va recuperata la dimensione del gioco: è vero che lo sport è agonismo, sfida, competitività, ma se perde la dimensione ludica è un guaio”.