Saranno state notti di silenzio quelle dei Magi. Notti di sguardi lanciati al cielo, illuminate da astri lontani. Notti di silenzio e di nostalgia. Perché, nel cuore di quei sapienti astronomi dell’Oriente, l’infinita distanza e immensità del cielo, nel buio della notte, nell’oscurità di quelle ore trascorse in ammirazione e in ricerca, doveva parlare loro di una Lontananza che il loro cuore avvertiva con nostalgia e desiderio. Saranno state, dunque, notti di silenzio, di nostalgia, di desiderio, nel buio e nell’oscurità illuminate dal brillio degli astri.
E, poi, il giorno che avanza. Con le occupazioni e le scadenze che incombono. Le faccende, gli incontri, gli sguardi degli altri. Dentro il tempo che scorre e le stagioni che si susseguono. E rendersi conto, quando si rientrava in quello spazio protetto della notte, che il cuore non regge, che quelle intuizioni notturne, nelle ore del giorno, nel via vai delle circostanze, si rimpicciolivano a bisogni di poco conto. Con l’ansia e l’insoddisfazione di tutti. Quella misura della notte, quell’apertura al Lontano, rimaneva, alla prova della vita, un orizzonte sconosciuto, senza volto.
È quello che accade a ciascuno. Il fondo e la verità di sè vengono spesso accantonati, ridotti, messi a tacere, come mi diceva un’amica: “Mi sono accorta che al lavoro ricercavo l’affermazione di me nella stima degli altri”.
La persona, spesso senza neanche rendersene conto, è così prigioniera delle riduzioni che gli altri operano su di essa. È come se si consegnasse al piacere, all’arbitrio, all’uso dell’altro. Nell’illusione che un certo riconoscimento possa portare alla vita soddisfazione e appagamento.
Da qui le molte forme di ansia che dilagano e prendono piede nella vita di tanti, come in modo illuminante mostrano Cesare Maria Cornaggia, Giulio Maspero e Federica Peroni nel loro libro Ansia e idolatria (Inschibboleth, 2024): “L’idolo, anche attraverso l’ansia, rende schiavi proprio producendo uno scambio tra desiderio e bisogno, poiché è la rappresentazione di una realtà finita che simbolicamente prende il posto della nostra relazione con l’infinito; l’idolo è un bisogno travestito da desiderio”. L’ansia è strettamente connessa all’idolatria, cioè alla riduzione di sé e del proprio desiderio a bisogno. Si proietta la propria soddisfazione su cose che non sono in grado di rispondere. E si rimane, così, prigionieri del proprio bisogno (idolatrico). Con tutta l’insoddisfazione, la stanchezza, la noia che questo comporta.
Cosa è in grado di liberarci dall’ansia, dall’idolatria, dalla riduzione di noi stessi a bisogno, dalla noia e dalla stanchezza che ci assalgono? Continuano Cornaggia, Maspero e Peroni: “Eppure, nello stesso tempo, il malato, ansioso o bipolare, ossessivo compulsivo o depresso, rimane sempre figlio di Dio e, per questo, soffre se il suo pensiero è imprigionato. Per questo il sintomo diventa la via di salvezza, in quanto rende insopportabile il meccanismo difensivo”.
È proprio il sintomo, l’emergere dell’ansia e dell’insoddisfazione, a indicare la via d’uscita. Esso, infatti, dice dell’impossibilità che, in fondo, abbiamo di operare questa riduzione di noi a bisogno. Per quanto tenace, confuso, sistematico questo appiattimento possa essere, il sintomo dice che noi non troviamo pace lì dove pensiamo di guadagnare la vita: “Proprio in questo contesto di vuoto di senso, c’è qualcosa di incomprimibile, inestirpabile, che resiste al nichilismo e a ogni cinismo razionalista. Che cosa resiste? Il mio io, irriducibile. Se faccio attenzione, devo riconoscere la persistenza di una struttura elementare del mio io, di me che pure subisco il vuoto di senso nel quale sono immerso, essendo esso da un certo tempo divenuto ‘clima’, ‘cultura’. Quanto più il nulla dilaga, tanto più le ferite e le attese della nostra umanità vengono a galla con tutta la loro potenza”. (Julián Carrón, Il brillìo degli occhi, Editrice Nuovo Mondo, 2020).
È quello che scriveva David Foster Wallace: “Fa veramente paura stare al mondo ed essere umani. […] Il volto che dò a quel terrore è la nascente consapevolezza che nulla è mai abbastanza, mi spiego? Che il piacere non è mai abbastanza, che ogni traguardo raggiunto non è mai abbastanza. Che c’è una sorta di strana insoddisfazione, di vuoto, al cuore del proprio essere, che non si può colmare con qualcosa di esterno. […] E la sfida che ci si prospetta, in particolare, sta nel fatto che non c’è mai stata così tanta roba, e di qualità tanto alta, proveniente dall’esterno, che sembra tappare provvisoriamente quel buco, o nasconderlo”.
Tutta la roba che abbiamo a disposizione, di cui abbiamo la possibilità di godere, verso cui possiamo proiettare il nostro cuore, per quanto possa temporaneamente tappare il buco, non è in grado di colmarlo, di riempirlo, perché esso è infinitamente più grande. Il nostro cuore, insopprimibile, resiste a ogni tentativo di riduzione e a ogni idolatria a cui, pure, ci consegniamo. Allora, è proprio l’insoddisfazione (il sintomo), che viene a galla dall’interno dei nostri tentativi di tappare il buco, l’alleato che ci è offerto per non perdere la vita.
Chissà come i Magi, in quelle notti di silenzio e di nostalgia, dovevano rendersi conto della permanenza di questo fondo di sé, nonostante tutte le riduzioni e le scappatoie della vita. Chissà come, in quelle notti, avranno avvertito che l’esistenza non può rinchiudersi nei confini ristretti del bisogno: “Gli uomini di cui parla Matteo non erano soltanto astronomi. Erano sapienti; rappresentavano la dinamica dell’andare al di là di sé, intrinseca alle religioni – una dinamica che è ricerca della verità, ricerca del vero Dio e quindi anche filosofia nel senso originario della parola”. (Joseph Ratzinger, L’infanzia di Gesù, Rizzoli, 2012)
I Magi sono uomini dell’inquietudine. Intuiscono che la vita non può perdersi nei piccoli orizzonti. Il cielo che osservavano, ammirati, in quei silenzi notturni, doveva rimandarli continuamente oltre loro stessi. Il loro cuore, in quei momenti, doveva essere abitato dalla mancanza di Qualcosa a cui non sapevano e non potevano dare nome, ma che intuivano essere la verità di loro stessi.
Dovevano percepire, in quelle veglie notturne, quello che scrive la poetessa Mariangela Gualtieri: “Eppure non si placa, non/ si tace, la sempre nostalgia/ di non sai cosa./ Sussurra piano/ e noi crediamo e non –/ a quel suo niente di voce“.
I Magi sono uomini in cui non si placa “la sempre nostalgia di non sai cosa”. E così possono intercettare la stella, il segno che parla e indica la presenza nella storia di quella Voce inestirpabile al fondo di sé e, come bagliore imprevedibile, apparsa in una carne umana, nell’uomo Gesù di Nazareth. Il segno parla a chi vive, dentro le inevitabili riduzioni di sé, una ultima attesa di ciò che è più sé dei propri tentativi, progetti, idolatrie.
Al comparire della stella pre-sentono la possibilità e l’apparire di una Strada per l’avverarsi della vita e della loro persona. E così si mettono in viaggio, così possono sfidare le prove del cammino, sotto la stella e il segno della presenza di Ciò che realmente compie. Ciò che mette in moto i Magi, che permette il ridestarsi della persona al di là dei confini ridotti del cuore, è la promessa intuita e pre-sentita sotto forma di segno di quella Vita di cui avvertivano la mancanza al fondo di sé.
“Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto” (Nina Cassian): è la promessa che Gesù Cristo introduce nella storia e nella vita di ogni uomo al cui orizzonte compare la stella di una umanità che Lo annuncia.
Gesù Cristo è infatti l’incarnazione di quel Mistero che ci chiama a Sé attraverso la provocazione della realtà. In Lui compare e si rende presente quella Vita a cui l’impatto con le cose continuamente rimanda. Soltanto l’imbattersi in presenze e in stelle che portano in sé l’annuncio, sprigionandone l’attrattiva, di Ciò che è più sé di sé permette a ciascuno di noi di rialzarsi oltre il cerchio finito dei bisogni e di mettersi in viaggio. È l’unica possibilità perché la vita rinasca, perché il silenzio e la nostalgia di quelle notti siano salvate. Ritrovandosi in quel Volto finalmente conosciuto.
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