Il torneo maschile degli Us Open 2014 si conclude in maniera sorprendente: il campione è Marin Cilic, che nella finale batte in tre set (6-3 6-3 6-3) il giapponese Kei Nishikori. Per il croato si tratta del primo titolo dello Slam alla prima finale; diventa il secondo giocatore dagli Australian Open 2010 a spezzare il dominio dei quattro grandi (Djokovic-Federer-Nadal-Murray) e il quarto (dopo Marat Safin, Juan Martin Del Potro e Stanislas Wawrinka) a rubare loro un Major negli ultimi dieci anni.
Ed eccoci qui, a raccontare che cosa? Cosa ha fatto Cilic? Limpressione è che non soltanto abbia vinto gli Us Open, ma abbia tracciato la fine di unepoca e linizio di unaltra. I numeri sono qui sopra; già Wawrinka aveva spezzato il dominio dei grandi, ma in finale Nadal ci era arrivato e aveva perso – forse – anche per i problemi alla schiena che lo avevano fortemente limitato. Cilic irrompe a Flushing Meadows con laria sprezzante dei più forti e dice chiaramente a tutti che i Big Four non sono più imbattibili; cosa di cui si era iniziato ad avere sentore, ma che aveva bisogno di una conferma. Un torneo esaltante, soprattutto perchè è cresciuto man mano che il trofeo si avvicinava; ha penato contro Simon, ma Federer e Nishikori li ha trebbiati senza pietà alcuna. E adesso? Intanto diventa numero 12 del mondo (ma era già stato 9), soprattutto dovrà dimostrare che a quasi 26 anni il suo non è il fuoco di paglia di quindici giorni ma piuttosto linizio di una carriera di altissimo livello. La sfida non può essere minore di questa.
Per lui vale lo stesso discorso. Ha trascinato il Giappone del tennis dove mai era arrivato: in una finale Slam. Ha perso perchè Cilic è stato superiore e perchè, possiamo ammetterlo senza togliergli prestigio, non ha saputo sfruttare i momenti che avrebbero potuto girare il match. Il suo torneo rimane un piccolo capolavoro: dopo aver combattuto per cinque set contro Raonic e Wawrinka era opinione comune che stanchezza e inesperienza lo avrebbero frenato davanti a sua maestà Djokovic. Invece è finita come tutti sappiamo, e cioè con il serbo che è uscito dal campo con il mal di testa e senza una finale. Nishikori i segnali li aveva già lanciati: a Madrid era arrivato in finale ma, un set pari contro Nadal, si era arreso a un infortunio. Deve tanto a Michael Chang, deve tantissimo alla sua voglia di migliorarsi sempre; è il nuovo numero 8 al mondo e da qui può solo crescere. Tornerà in finale? Siamo convinti di sì.
Come definire il suo torneo? Con i numeri 1 del ranking è sempre difficile tracciare una linea netta: ti aspetti che arrivino sempre in finale e, essendo sulla carta superiori agli altri, i turni precedenti sono più che altro una giornata in ufficio senza troppe consegne. Così è stato il cammino del serbo; una passeggiata con qualche falsopiano, ma niente di più. Anzi: spazzato via Murray, il sentore comune era che tra lui e lottavo Slam potesse esserci solo Federer. Poi ha trovato Nishikori, ed è caduto: come? Semplice: il giapponese ne ha evidenziato il calo strutturale che ha avuto dopo Wimbledon e il matrimonio. I campanelli dallarme dei Master 1000 della East Coast avevano suonato forte, ma quando uno si chiama Djokovic ha il credito del passato e del grande appuntamento che non si fallisce mai. Non è stato così; appuntamento in Australia, dove dovrà dimenticare in fretta un Major che doveva vincere e non ha vinto.
La sensazione forte, anzi fortissima, è che il grande sconfitto degli Us Open 2014 sia lui. Pensateci: Nadal assente per infortunio, Djokovic e Murray dallaltra parte del tabellone, lunico ostacolo serio verso la finale il potenziale quarto contro il suo erede Dimitrov. Soprattutto una forma ritrovata, e unestate da sogno nella quale aveva centrato la finale a Toronto e il titolo a Cincinnati appena dopo essersi giocato lottavo Wimbledon. Poi passano i giorni: Dimitrov perde contro Monfils, Djokovic e Murray si incrociano ai quarti, Nole perde la semifinale. Le stelle che si allineano: diciamo la verità, lo abbiamo pensato tutti ed era bello immaginare Roger con il diciottesimo Major in mano. Non è successo. Già contro Monfils aveva sostanzialmente perso, prima di risorgere da 0-2 e due match point contro. Fatto quel miracolo, che pareva tanto lennesimo segno del destino, ha incrociato Cilic: game set and match, ma per laltro. Il Re non ha mai visto la pallina: troppo più forte oggi il croato, troppo più in forma e, ma è un azzardo e non un dato di fatto, troppa più fame. Ci riproverà in Australia lo svizzero, perchè per ora non molla; ma da New York ha imparato una lezione, per lui e gli altri non è più come prima.
Avremmo voluto dargli un 9 pieno, ma lo avremmo fatto se avesse vinto il quarto di finale. Ha avuto sulla racchetta due palle per far fuori Federer, arrivare alla seconda semifinale Slam (a sei anni dalla prima) e giocare da favorito (forse) per andare al lunedi del titolo; lì però è arrivato il vero Roger, ed è tornato il Monfils incerto e pasticcione che non aggiunge solidità e incisività al suo spettacolare atletismo. Peccato: è una colpa, sulla quale dovrà meditare. Ma nulla toglie al suo grande torneo: è arrivato al quinto turno senza perdere un set e distruggendo avversari come Gasquet e Dimitrov, poi è salito 2-0 contro il Re con facilità disarmante. Gli è mancato quel tocco in più; che però, purtroppo per lui, è quello che distingue gli ottimi giocatori dai campioni.
Cos’è successo al buon Andy? Campione a New York due anni fa, lo avevamo lasciato trionfante nella “sua” Wimbledon con la consapevolezza che fosse arrivata la sua era. Torniamo un anno e mezzo dopo e lo troviamo numero 10 del mondo (mai così in basso dal 2008) ed eliminato ai quarti. Certo, da Djokovic: ma lo scozzese che non mollava un centimetro e aveva colmato il gap rispetto agli altri tre non c’è più. Un po’ conta la schiena, una delle parti del corpo più infide; un po’ conta forse il fatto che il suo tennis è sì martellante e costante, ma spesso manca del colpo risolutore. E dire che aveva triturato Tsonga vendicando la sconfitta di Toronto, e mostrato di poter tornare a giocarsi uno Slam; così non è stato, l’amicone Nole lo ha surclassato senza pietà.
Un passo indietro, anzi due. Mettiamola così: è come se il bulgaro avesse perso un anno della sua carriera. E’ tornato a quando si parlava di lui come di uno straordinario talento che non aveva continuità e non riusciva a fare il salto di qualità; più o meno a dopo Madrid 2013 e quella vittoria su Djokovic che non aveva avuto seguito. La semifinale a Wimbledon? Cancellata. La semifinale a Toronto? Mai esistita. E’ arrivato agli ottavi senza dover fare straordinari; ha incrociato Monfils, e ha finito per perdere in tre set. Ci sta venire battuti dal francese di oggi, ma non così: ha giocato male, senza un guizzo o uno scatto, quasi arrendevole. Ormai è costantemente nella Top Ten; deve trovare la costanza nel rendimento ed elevare il suo standard di gioco, altrimenti la sua carriera rischia di avere poche ondate in un mare piatto di ottimo livello senza vittorie importanti.
Frantumato da Cilic ai quarti, il ceco ha perso un’altra occasione. Lo diciamo da anni: Berdych è stato nel corso di questo lungo periodo il numero uno degli outsider, l’unico (insieme a Del Potro, il cui polso però ha spesso la meglio) in grado di sostenere la battaglia con i Big Four. Lo aveva dimostrato a Wimbledon, lo aveva dimostrato a New York quando aveva battuto Federer. Eppure anche a lui, come a Murray, manca sempre qualcosa; è un giocatore che in particolare sul cemento martella senza pietà e può risultare imbattibile, ma quando arriva il momento di stringere la vite non ce la fa. Ormai ha 29 anni, e di occasioni potrebbero non arrivarne tante altre; rischia di essere ricordato come uno dei primi dieci al mondo che però non ha mai dato troppo fastidio a chi gli stava sopra.
Anche per lui un passo indietro, e anche per lui l’ennesima occasione mancata. La forma stratosferica con cui si era presentato in estate lasciava ben sperare: vittorioso a Toronto mettendo in fila quattro dei primi dieci giocatori al mondo, arrivava a New York sapendo che il suo vero torneo sarebbe iniziato agli ottavi contro Murray. Avendolo superato in Canada sapeva di poter andare oltre i precedenti negativi (2-9), e invece non ha vinto nemmeno un set, venendo rimandato un’altra volta. Vale per lui lo stesso discorso fatto per Berdych: a 29 anni le occasioni le ha avute ma non le ha colte, e ce ne saranno sempre meno.
Bisogna fare dei distinguo. Il voto negativo riguarda più che altro Fabio Fognini (4) e Andreas Seppi (5,5): il primo ancora una volta ha perso un match che doveva vincere (contro Mannarino) togliendosi da solo l’opportunità di arrivare fino agli ottavi, il secondo ha dimostrato sul campo come certi giocatori che picchiano a tutto braccio (in questo caso Kyrgios) gli siano inevitabilmente superiori. Pollice levato invece per Paolo Lorenzi (6,5), per la prima volta al secondo turno di uno Slam e poi in grado di spaventare Gasquet, e soprattutto Simone Bolelli (7,5): già superare Vasek Pospisil non era affatto scontato (anzi, partiva sfavorito senza se e senza ma), al secondo turno addirittura è stato avanti due set a zero contro Robredo prima di mollare. Si riparte da qui, con la consapevolezza che nel tennis maschile abbiamo tanta strada da fare, ma qualche soddisfazione ce la possiamo togliere.
Nel tennis ATP il concetto di “giovane” è sempre molto sottile; spesso e volentieri alcuni giocatori esplodono ed emergono in età avanzata, e in generale rispetto alle donne maturano meno in fretta. Cilic ad esempio compie 26 anni tra pochi giorni, Nishikori ne fa 25 a dicembre; con la loro carta d’identità Djokovic, Nadal e Federer avevano già fatto incetta di Slam. Tuttavia qualche talento verde sta emergendo: un nome su tutti, quello di Dominic Thiem. Austriaco del ’93, quest’anno ha fatto grandi progressi e agli Us Open si è spinto fino agli ottavi eliminando tra gli altri Gulbis, rimontando da 0-2 (anche per qualche problema fisico del lettone) e Feliciano Lopez. Ha perso contro Berdych, ma evidenziato in modo palese che può fare strada (oggi è numero 36 al mondo). Milos Raonic ha perso contro Nishikori ma ormai è nei primi dieci ed è una realtà, di Dimitrov abbiamo già parlato mentre continuiamo ad aspettare l’esplosione di Jerzy Janowicz: un anno fa a Roma sembrava di stare davanti alla nascita di un campione, adesso ci chiediamo se arriverà mai anche solo nella Top Ten.
(Claudio Franceschini)