Cari genitori di Marco, provo a pensare che cosa potrei dirvi, all’indomani di un dolore così grande, se vi conoscessi. Probabilmente nulla, basterebbero uno sguardo e un abbraccio. E spero che nessuno vi obblighi a dire o ascoltare parole faticose, vane. Provo a stare accanto a voi, in quella terra lontana, in un albergo anonimo, neanche una stanza familiare in cui guardare agli oggetti, le foto, aspettare che bussi un amico.
Di vostro figlio, so che era un campione. E che era simpatico, amato dai ragazzi, per quell’atteggiamento un po’ guascone, quel fare goliardico di chi, a vent’anni, si butta nella vita come in un’avventura da cavalcare al galoppo, col sorriso sul volto e la baldanza nel cuore. So che voleva vincere e chi non lo vuole, che gli piacevano le cose semplici, pane e nutella, la buona musica, i compagni del suo paese, la sua ragazza, che ora piange con voi, stravolta da quei secondi che le hanno segnato la vita. Parrebbe facile buttarla lì, una frasetta che suggerisca una parte di responsabilità, per chi ha permesso, voluto, spronato un figlio ragazzino a cimentarsi in uno sport così pericoloso. Che per me, che non capisco nulla di motori, non è neppure uno sport. Per me, che ho paura di mio figlio adolescente, quando esce col cinquantino.
So che gli siete sempre stati vicino, che siete stati la sua forza, come per voi lui era l’orgoglio, la giovinezza che prosegue. Per questo era così, giocoso, strafottente, alla buona. Aveva una famiglia alle spalle, come si dice, e un paese, una terra solare, allegra. So bene che con la paura non si educa, non si cresce, non si gode della felicità che ci è data. So anche che la spensieratezza deI ventenni non è senza pensieri, senza esitazioni e solo voi, padre e madre, sapete cosa nascondeva la maschera buffa di quel vostro ragazzo che faceva le smorfie alle telecamere, quel capellone che si beava a stupire, a scardinare l’icona dell’eroe, del vincente. Un figlio come i nostri, il Sic, e infatti ai nostri figli piaceva tanto: parlano come lui, gesticolano su fb come lui, scherzano e fingono di giocare sempre.
Che strazio, vederlo su quell’asfalto, pensare che bastava un attimo, e quello scontro fatale con le altre moto non ci sarebbe stato, non sarebbe stato sbalzato in aria, perdendo il casco, la vita. Non pensateci. Lasciatelo andare. Poteva succedere per una malattia, un incidente di altro tipo, nessuna morte è banale, e la morte di un figlio è un mistero, o una follia.
Con quel ragazzo che voleva vincere, avete vinto anche voi. Vi è stato affidato come un bel dono, ne avete avuto cura, gli avete dato le ali. Nulla va perduto, nella memoria, nella certezza che chi l’ha voluto l’ha già accolto con un abbraccio. A lui che diceva, scuotendo i riccioli: “Gnènte, dài, è andata così, gnènte…”