Forse fu del tutto casuale il fatto che John Keats (1795-1821), uno dei poeti più importanti del romanticismo inglese, morì a Roma nel 1821 in un palazzo di Piazza di Spagna, a pochi passi dal Collegio di Propaganda Fide, nella cui cappella John Henry Newman, un anno e mezzo dopo la sua conversione dall’anglicanesimo alla Chiesa cattolica, il 30 maggio 1847 fu ordinato sacerdote cattolico. Durante quell’importante soggiorno romano, inoltre, papa Pio IX approvò il suo progetto di introdurre in Inghilterra la Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri e lo nominò primo superiore dell’Oratorio inglese.
C’è però un elemento non casuale, all’interno di una coincidenza come questa, e viene portato alla luce per gli studiosi, gli appassionati e i devoti italiani grazie alla recente pubblicazione di una raccolta di testi poetici e di critica poetica del Newman anglicano e cattolico: il nuovo Beato, attraverso i suoi non pochi lavori nel campo della poesia, può infatti essere considerato a pieno titolo uno dei principali esponenti del romanticismo inglese dell’Ottocento (John Henry Newman, Poeta. Saggio sulla poesia, Antologia poetica, Il sogno di Geronzio, a cura di Luca Obertello, Jaca Book, Milano 2010).
Dunque Newman condivise con la stagione romantica interessi e tensioni ideali, compresa quella che portò i principali cantori del romanticismo all’esaltazione della cultura italiana. Se allora Keats (come Byron, Shelley, Wordsworth) non sarebbero potuti essere romantici (o comunque non lo sarebbero stati nel modo in cui lo furono) senza aver valicato le Alpi verso sud, nemmeno Newman sarebbe diventato cattolico nel modo in cui lo diventò senza la conoscenza della cultura e della spiritualità del cattolicesimo italiano.
Ciò è dimostrato innanzitutto dal fatto che egli si decise definitivamente a entrare nella Chiesa di Roma anche perché uno dei suoi primi seguaci, il giovane scozzese William Lockhart (1820-1892), un paio di anni prima, aveva effettuato la sua professione cattolica nelle mani del rosminiano Luigi Gentili (1801-1848). Newman, del resto, prima della conversione aveva conosciuto personalmente Gentili, leggeva sant’Alfonso de’ Liguori e utilizzava il Manuale dell’Esercitante di Rosmini. Oltre alla scelta di entrare nella Congregazione fondata a Roma da san Filippo Neri alla metà del Cinquecento (la prima sede dell’Oratorio a Birmingham venne da Newman ribattezzata Maryvale in onore della Chiesa romana di Santa Maria in Vallicella dove il Neri aveva dato inizio all’Oratorio), merita anche di essere ricordato il soggiorno milanese che il neoconvertito di Oxford compì nell’autunno del 1846: in quell’occasione, egli (che già conosceva i Promessi Sposi) si disse ammirato dalla «semplicità, bellezza e chiarità» che distinguevano lo stile italiano delle chiese milanesi da quello gotico delle chiese inglesi e restò rammaricato di non aver potuto incontrare Manzoni e Rosmini.
Sicuramente è anche in quanto il suo legame con l’Italia fu di natura eminentemente religiosa che Newman può essere considerato romantico soltanto in un senso particolare. Luca Obertello, nell’introduzione al volume, sostiene infatti che egli, nel saggio giovanile sulla Poetica di Aristotele, pur ponendosi sulla scia del romanticismo nel sottolineare il valore essenziale del sentimento interiore nell’espressione artistica, si distanziava però dal romanticismo perché la parte che riservava al sentimento era «pur sempre “obiettiva”», riguardante cioè «i sentimenti dei personaggi, non dell’autore o del poeta» (p. 18).
Ciò che davvero, nell’espressione poetica, gli interessava era infatti il momento ideale, quella dinamica attraverso la quale la poesia fosse in grado di trasmettere una verità universale: Newman, in altre parole, voleva che i lettori non si immedesimassero nelle storie da lui proposte, ma, attraverso di esse, si aprissero a una nuova visione del mondo. Non solo dal saggio teorico su Aristotele, ma anche dalla raccolta antologica di poesie composte tra il 1826 e il 1862 e dal Sogno di Geronzio (dramma teatrale sul tema della morte composto di getto nel 1865) emerge allora, in forma immaginativa, quella verità magistralmente dipinta nella celebre invocazione alla luce gentile (Lead kindly light), scritta da Newman nell’estate del 1833 sul mare tra Palermo e Marsiglia sulla via del ritorno in Inghilterra dal viaggio nel Mediterraneo: qui, il non ricordare gli anni passati (remember not past years) suona come premonizione del grande cambiamento a cui, di lì a pochi giorni, egli sarebbe andato incontro aderendo al Movimento di Oxford e intraprendendo il cammino intellettuale che lo avrebbe portato prima a concepire una riforma della Chiesa anglicana e poi a diventare cattolico.
L’accettazione della critica romantica alle regole poetiche non portò quindi Newman ad abbracciare quello psicologismo (riduzione della poesia a espressione dello stato d’animo del poeta) che, secondo Obertello, era la conseguenza delle «analisi psicologiche sulla conoscenza e sull’affettività umana iniziate ad esempio da Locke» (p. 14): in quanto riduzione della ragione, lo psicologismo era l’altra faccia di quel razionalismo contro cui Newman concepì la sua missione filosofica e teologica, proponendo in alternativa una nozione di razionalità intesa come manifestazione dell’essere umano concreto.
In Newman poesia e filosofia (nel caso specifico dottrina della conoscenza) sono quindi strettamente collegate ed è utile, a questo punto, richiamare l’attenzione su un altro volume (uscito anch’esso nel 2010) dedicato alla proposta filosofica newmaniana così come emerge dagli scritti universitari (Angelo Bottone, John Henry Newman e l’abito mentale filosofico. Retorica e persona negli scritti dublinesi, Studium, Roma 2010): l’Autore (docente di Filosofia presso lo University College di Dublino), dopo aver messo in luce il debito che Newman contrasse con Aristotele e con Cicerone nell’elaborare la sua concezione del sapere universitario (pp. 49-83), dedica infatti non poche pagine a far vedere come la newmaniana Idea of a University debba essere letta anche alla luce della serrata critica, in essa presente, alla filosofia di John Locke, significativamente associata da Newman all’utilitarismo grandemente in voga alla metà dell’Ottocento.
Con le sue poesie, il nuovo Beato, in fondo, volle anche reagire a quello stesso riduzionismo della ragione a misura umana contro cui, attraverso la critica a Locke, continuava a combattere dal versante universitario mentre non cessava di dedicarsi ai versi. La concezione razionalistico-empiristica della ragione come limitata al mondo dei fenomeni (e dunque incapace di aprirsi intellettualmente al Mistero) era infatti, secondo Newman, una delle componenti del movimento romantico che, da un punto di vista cristiano, potevano rendere problematico un romanticismo attestato esclusivamente sul sentimento; ma l’effetto più pericoloso di quella concezione consisteva, a suo giudizio, nel rendere impossibile giustificare, sulla base di essa, un sapere e una virtù orientati alla conoscenza del bene, lasciando aperta la strada solo all’educazione del gentleman, ruotante sull’eccellenza nella vita sociale.
Newman invece era convinto del fatto che, per quanto fosse bello essere un gentleman (it is well to be a gentleman), solo la Chiesa poteva mirare alla rigenerazione del cuore dell’uomo (the Church aims at regenerating the very depths of the heart).