Brutta sorpresa per gli studenti universitari di ritorno dalle vacanze. Matricole comprese. Sono in arrivo aumenti sulla tassazione degli iscritti a partire dal primo anno e pare che non sia una questione resa acuta dalla crisi. L’aumento medio a livello nazionale, secondo l’Udu (Unione degli universitari), è di 650 euro, pari al 71%, con punte di oltre 1.400 euro per Sassari e l’Università della Basilicata. E ancora: rincari di oltre 1.100 euro a La Sapienza di Roma, Siena e Palermo, 950 a Messina e Foggia, oltre 900 a Perugia, tanto per citare alcuni casi. Abbiamo chiesto per IlSussidiario.net a Dario Nicoli, Docente di Sociologia economica nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, se i paventati aumenti possano disincentivare l’iscrizione agli atenei e aprire la strada a scelte diverse. “In questo momento – dice Nicoli – va segnalata una certa riduzione delle iscrizioni alle università, ma questo non va attribuito solo ad un possibile aumento della tassazione. Il fenomeno è già in atto da un paio d’anni. In più, è in forte aumento il numero di studenti lavoratori che devono arrangiarsi con impieghi più o meno saltuari per poter concorrere con la famiglia a sostenere il peso delle tasse”.
E’ un indubbio segnale di crisi.
Certo, in più viene rilevato un buon numero di studenti che si iscrive non per convinzione ma per rinvio delle scelte, sperando magari che un qualsiasi titolo in più possa favorire l’ingresso nel mercato del lavoro su ruoli più prestigiosi o redditizi. E proprio questa categoria potrebbe essere la prima a decidere di non iscriversi.
Pensa che facoltà molto frequentate ma che offrono pochi sbocchi lavorativi possano subire un calo di iscrizioni?
Assolutamente. Un altro elemento che, mai come in questo periodo, incide sulla scelta degli studi, è la crisi economica: nel momento in cui si presenti una possibilità, c’è una parte consistente di giovani che preferisce comunque accedere ad un lavoro e preferisce non perseguire percorsi di studio che abbiano difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro. Questo causa un calo di iscrizioni in questi tipi di facoltà, le stesse che hanno registrato un boom negli ultimi anni. Mi riferisco, soprattutto, a quelle legate alla comunicazione.
Riesce a dare una spiegazione a questa preferenza che appare, tuttavia, ingiustificata?
E’ noto che in Italia gli studenti non amino le facoltà scientifiche che, però, sono quelle che registrano una forte richiesta. Nel momento di maggior benessere le scelte delle famiglie, per ciò che riguarda gli studi dei figli, risultano slegate dal contesto economico e seguono soprattutto la preferenza o l’inclinazione culturale dello studente. Ora, però, tutto è cambiato.
Cioè?
C’è già una tendenza forte delle famiglie a tenere in maggior conto la questione degli sbocchi lavorativi, dal momento che è possibile raggiungere una certa posizione sociale solo in due modi: o lavorando e poi crescendo durante lo sviluppo della carriera lavorativa, oppure con un titolo di studio che renda possibile un’occupazione di prestigio. E siccome questa seconda strada diventa sempre più critica, inevitabilmente si alzerà il numero di quelli che cercheranno di percorrere la prima.
Quindi, un’occasione per valorizzare una scelta scolastica professionale?
Proprio nell’ultimo anno si è registrato un aumento degli iscritti agli istituti professionali nell’ordine del 3% e dei tecnici dell’1,5%. E’ la prima volta che assistiamo ad una crescita positiva poiché sino all’anno scorso ci sono stati cali continui. Anche i corsi professionali delle regioni hanno subito un incremento nelle iscrizioni: purtroppo, però, manca un supporto finanziario. Se ottenessero fondi necessari, direi che questi ultimi potrebbero persino raddoppiare. Questo va a discapito dei ragazzi che, seppur desiderosi di ottenere una qualifica professionale, sono costretti a ripiegare su altre attività.
Qual è, invece, la situazione degli istituti professionali?
Nonostante la riforma e il boom di iscritti nell’ultimo anno, gli istituti professionali risultano carenti perché la parte di laboratorio non è sufficiente: sei ore alla settimana sono davvero poche.
L’incremento di studenti nelle professionali significa, quindi, che è superato il preconcetto che siano istituti di serie B?
Speriamo che ciò avvenga. Nella cultura italiana c’è una sorta di razzismo che considera il liceo come l’unica scuola capace di dare un certo valore formativo e culturale. L’istituto tecnico è appena accettabile ma il professionale è, per la concezione italiana, una sottocultura: a torto, è ancora considerata un’opzione per chi non è forte negli studi.