Ci parla ancora la realtà, oggi, nel senso “aperto” della capacità, di cui ogni uomo in quanto uomo è capace, «di essere colpito dal reale, di vivere la realtà secondo la sua verità, perché capace di usare la ragione secondo la sua vera natura di apertura alla totalità della realtà»?
Un uomo che avesse vissuto nel passato questa capacità, come è stato naturale per millenni della sua storia, se oggi tornasse sulla terra, quanto troverebbe di “senso religioso”? Perché di questo si tratta, per dirla con Giussani, cui abbiamo attinto per la definizione. E dove dovrebbe cercarlo? E chi o cosa alla fine troverebbe?
Fondamentalmente sono queste le domande che si è posto ieri al meeting John Waters, intervenendo su “emergenza uomo”. La risposta che ha dato alla prima domanda, tracciando una coinvolgente fenomenologia della percezione quotidiana di massa di sé dell’uomo contemporaneo, è che di senso religioso quest’astronauta del passato, trovandosi di colpo in un aeroporto dove se paga il biglietto può credere di essersi dato da sé le ali per volare visto che se le è costruite, di senso religioso ne troverebbe ben poco. Che bisogno c’è di cielo, se in cielo ci posso andare quando voglio, e vedo che sulle nuvole non c’è nessuno, solo il problema di tornare a terra senza cadere?
Walters chiama de-assolutizzazione questa riduzione dell’immaginazione umana che gli chiude gli occhi sul suo stare al mondo tra origine e destino, e sulle domande che ne vengono. In questa de-assolutizzazione del mondo l’uomo che si incontra è l’uomo chiuso nel bunker di se stesso della soggettività moderna, della ragione positiva di cui ha parlato Benedetto XVI a Berlino, che crede di aver posto e poter porre tutto, anche se stesso, e le sue stesse condizioni a contorno di possibilità naturali e storiche. Un uomo che ha lasciato fuori del bunker, pensando di starsene così più sicuro, essendosi “messo in proprio” dalla creazione e persino dalla natura, ogni rapporto con l’infinito, il mistero, con il non immediatamente dominabile dalle sue mani, e con le domande che ne vengono.
Ma nel far questo non ha potuto fare una cosa, e questo è l’essenziale, che anche all’uomo del bunker continua a dare una possibilità. Nel bunker non ha potuto non portare, con se stesso, il suo cuore, il “motore” di quelle domande, il pezzo di infinito e di mistero che è e che resta a se stesso, anche quando crede all’infinito e al mistero di aver chiuso le porte. Ed è questa, pur nella de-assolutizzazione del mondo che avanza, “la buona notizia”, che dobbiamo saper ascoltare.
Nel bunker dell’uomo di oggi c’è un aspetto dell’autosoffocamento dell’uomo che alla lunga non è sostenibile. Per quanto spesse, proprio per questo, le mura di questo bunker non reggeranno all’assedio della realtà, del bisogno d’aria aperta per i propri polmoni che l’io, ogni io che non sia un’astrazione, ma un io umano, semplice e viva persona, non può alla lunga non respirare. Bisogna avere fiducia. Waters lo dice con i versi di Kavanagh: “l’ingresso alla vita dell’amore è lo stesso ingresso dappertutto”. Anche oggi, nel bunker. Questo ingresso è il cuore sempre nuovo, il cuore “bambino” dell’uomo, il cuore della nativa dipendenza in cui nasce alla sua stessa libertà. Non c’è consumo di cose, di surrogati “materiali”, di evasioni artificiali che può spegnere questo bisogno di andare incontro alla realtà di questo mistero che ci fa, che eccede ogni misura che crediamo di avere, del mondo e di noi stessi.
Su questo mistero di noi, che ci fa uomini, su questo “amore”, Waters non ha voluto essere evasivo, non si è nascosto: ha chiamato per nome il mistero che è entrato nella sua vita, nella sua stanza quando credeva di averlo lasciato fuori, Cristo – “questo è il nome di colui che mi sostiene”.
Ci ha indicato una possibilità. Ed è una possibilità imponente. La realtà in cui ci chiudiamo ogni giorno, provando a chiudere porte e finestre al mistero che siamo a noi stessi, non ha mura così alte da togliere dall’orizzonte, anche dell’uomo del bunker, questa possibilità.