Se essere poeti non è soltanto il guizzo intuitivo e formale di una singola esecuzione, ma anche (e forse soprattutto) una paziente e testarda modalità di dialogo con le cose, un’instancabile fedeltà alla propria vocazione, allora Giovanni Raboni è stato senz’altro tra i più importanti poeti del nostro secondo Novecento. La parabola poetica di Raboni ha infatti come sua costante una pazienza, una fedeltà alla poesia vissuta come inesausta registrazione critica della vita: una registrazione che lo vede, nel tempo, sempre al centro della scena, a fare i conti con il proprio tempo, con le urgenze del presente, in un dibattito agonico vissuto sempre in prima persona.
Fedele al proprio tempo, ma anche al proprio luogo e al proprio popolo: proprio quella Milano che Raboni non ha mai rinnegato, sentendola “propria” a prescindere da ogni contraddizione, sua non per elezione ma, si potrebbe dire, per natura: per destino. È poeta civile, Raboni, proprio per questa sua configurazione quasi indivisibile dal corpo della civitas, come acutamente scrive Andrea Zanzotto: «Le origini di Raboni (…) si manifestano subito fortemente connesse a un’idea dell’impossibilità di agire nella solitudine (…) Si delinea progressivamente il senso di un destino che, se rifiutato, diventerebbe persecutorio». Questo indiscusso amore per la propria città rende Milano continua occasione di metafora, e metafora essa stessa: «La topografia, in Raboni, diventa storia, ragione privata e sociale al tempo stesso: sulla faccia di Milano, sui muri lebbrosi o nei quartieri “risanati” egli ritrova il disegno della propria vita» (Luigi Baldacci).
Del resto, il peso culturale che Raboni ha avuto gli permetterebbe un posto di primo piano nel panorama del nostro secolo anche se non avesse mai scritto un verso in proprio: Raboni è stato critico e saggista eccezionale, ma soprattutto grandioso traduttore: da Racine, da Baudelaire, da Apollinaire, da Proust. Ed è un’umiltà, quella del Raboni traduttore, che lo porta a crescere quasi in osmosi con l’opera altrui – a misurare la propria opera anche nel dialogo con l’opera di un altro. E anche quella che è stata spesso ingiustamente definita la “modestia”, la tenue prosasticità della sua poesia, è in realtà il tentativo di superare qualsiasi suggestione romanticheggiante sulla letteratura (la decadente casualità dell’“ispirazione”) in favore di una convivenza, di un confronto che – anche se drammatico – sia quotidiano, fedele: appunto, vocazionale.
Quello di Raboni è un discorso lungo e, spesso, difficile – ma con moltissimi punti d’attenzione. Non potendo compiere una “carrellata” minimamente esaustiva del suo lavoro poetico, mi interessa qui mettere in luce tre sole brevi poesie: tre “contraccolpi”, tre trasalimenti che, fra i tanti, illuminano questo suo percorso, e conferiscono qualcosa come una rifrazione “altra”, un significato diverso ad una parabola poetica che potrebbe sembrare, altrimenti, solo un percorso di progressiva amarezza personale e storica. E la poesia di Giovanni Raboni è molto più che la storia – sia pur formalmente altissima – di uno sgomento.
È emblematica, a questo proposito, la prima di una serie di poesie dal titolo Stanze per la musica di Adriano Guarnieri. Per un felice paradosso, in verità non raro nella storia della letteratura, una delle poesie più belle di Raboni viene scritta, in un certo senso, su commissione – dietro un invito. La riportiamo per intero:
Quare tristis – perché
sempre, nella veglia e nel sonno,
nell’omissione e nell’adempimento,
l’anima ci fa così male?
Noi che la custodiamo
senza amarla, senza conoscerla
nella gabbietta delle nostre ossa
come il vetro d’una lanterna
custodisce la fiamma
sappiamo soltanto che è lei,
lei che non ha né tendini né sangue,
la compagnia più sanguinosa.
Tu come lei invisibile
proteggici dal suo silenzio,
fa’ che sentiamo in tempo la sua voce.
La cifra della ricerca raboniana è proprio in questa “contraddizione non contraddittoria”: in un riconoscere senza accettare, un “sapere” privo d’amore, lì dove però l’amore è la cosa più desiderabile – fitto nell’agone con un mistero così ineffabile, così apparentemente discreto, e che tuttavia «ci fa così male», che è per noi «la compagnia più sanguinosa». E quell’allocuzione finale, l’irrompere di un Tu non chiarito, non formalizzato: quasi sussurrato, eppure immane, pur così masticato tra i denti – così intimo col fondo della persona.
Una posizione simile la ritroviamo all’interno di un libro molto più tardo, Barlumi di storia, proprio dove l’amarezza esistenziale, politica e storica sembra essere arrivata al suo approdo definitivo, troviamo una constatazione che è folgorante, per la sua lealtà, la sua capacità di ricapitolare e sorprendere senza censure un fattore inaspettato: un’indomabilità del cuore che sempre risorge, nonostante tutto, e che non può spiegarsi da sé. Anche qui irrompe, sommessa, la possibilità di qualcosa d’altro – di un altro respiro accanto al proprio, dentro il proprio.
Per nessuna ragione,
sapendo quello che succede,
mi vorrei risvegliare in questo mondo.
Ma già pensandolo (pensando
di pensarlo) so anche
che non è vero, che per quanto
ignominioso sia il presente io mai
rinuncerei, potendo scegliere,
a starci, magari di sghembo
e rattrappito d’amarezza, dentro.
Forse, mi dico allora,
non è per me che parlo, è qualcun altro,
nato da poco o nascituro,
ad agitarsi nel mio sonno, a premere
da chissà dove sul mio cuore,
a impastare parole col mio fiato…
Raboni ha la sua altezza più significativa forse proprio in questi momenti: nello stupore di trovarsi diverso da come si era programmato e immaginato. È qui che egli trova il nervo più vivo del proprio interrogare. E penso a un brevissimo componimento che Raboni, pur da sempre simpatizzante per la sinistra comunista, scrisse dopo l’assassino del commissario Luigi Calabresi per mano di alcuni esponenti di Lotta Continua, il 17 maggio 1972. Raboni dedica una poesia a quel Calabresi che, nella logica dell’ideologia di quegli anni, era – o doveva essere – il “nemico”:
Disegnato col gesso come era
sul marciapiede il mondo si cancella.
Mi vedo perdere colpi, avere pietà
del questore giustiziato, del carabiniere in salita.
Che occasione, in questi giorni in cui è ancora notizia l’arresto dell’autore dell’attentato di Brindisi, non solo la possibilità di sorprendere – quasi come malgrado noi – l’insorgere della pietà, ma anche interrogarne la fonte e la natura, di questa pietà non nostra, che sembra introdursi tra le griglie del dolore, della rabbia, del risentimento, dell’ansia di vendetta – e ne interpella le asprezze, le trasforma in qualcos’altro – ne allarga la domanda, ne ridimensiona la statura. Interrogare questo, alla luce di questi versi, può portare a chiedersi se in questa situazione, in un insorgere di umanità diversa, di urgenze nuove, se si «perdono colpi», se il mondo «disegnato col gesso / si cancella», oppure diventa, in qualche modo misterioso, più vivo, più reale, più vero.