Prosegue “Mediterraneo, mare di cristallo”, il taccuino del viaggio marittimo-letterario compiuto dall’autore (ndr).
Il teatro dell’anima
La strada per Epidauro è come la strada per la creazione. È questa la frase che mi ripeto guardando dal finestrino della macchina che ho noleggiato per raggiungere Epidauro, mentre il paesaggio, dolce e aspro allo stesso tempo, dell’Argolide scorre fuori dal finestrino. Da Nea Epidauro, cittadina di mare, riprendo la strada dell’entroterra che arriva al villaggio di Liguriò, dove si trova la graziosa chiesa bizantina di San Costantino. Qui, ad un anziano dal volto scavato dal tempo, chiedo con il mio greco stentato la strada per arrivare alle rovine del santuario di Asclepio, dio della medicina. L’anziano, sorridendo forse della mia pronuncia erasmiana (ormai è una deformazione professionale), mi indica una strada continuando a ripetere: “Non è lontano!”. Ho ancora la parola makria che mi riecheggia nella memoria insieme al ricordo del suo sorriso divertito.
Percorro altri cinque chilometri di una bella strada asfaltata per raggiungere il sito archeologico di Epidauro, un luogo isolato dal resto del mondo.
Appena si supera la guardiola del custode, una fonte zampilla e offre al viandante assetato acqua fresca, uno dei beni più preziosi contro il calore mediterraneo.
Riempio la borraccia e mi siedo sotto un ombroso albero per sfogliare Il Colosso di Marussi di Henry Miller.
L’autore, nato a New York da genitori di origine tedesca nel 1915, aveva coltivato sempre il sogno e l’ambizione di diventare uno scrittore, fino ad arrivare nel 1924 a lasciare il suo lavoro e inventarsi gli espedienti più diversi.
Parte per Parigi nel 1930 e qui troverà notorietà per i decenni successivi: ispirato dalla grande passione amorosa scoppiata per la scrittrice Anais Nin, pubblica a Parigi il suo maggior lavoro, Tropico del Cancro (1934). All’avvento della seconda guerra mondiale parte per la Grecia per andare a trovare un giovane ammiratore, l’inglese Lawrence Durrell, e da questa esperienza nacque Il colosso di Marussi (1941), un’originale “guida alla Grecia”, in cui la genuina esperienza ellenica è sentita come recupero del divino nell’uomo.
Rifletto sui motivi della scelta del libro di Miller come compagno della visita di Epidauro.
Mi ero messo alla ricerca, nella marea bibliografica sul Mediterraneo, in un primo tempo di opere letterarie, poesie e romanzi, che parlassero, in rotte, in scali, in porti, del viaggiare lungo il Mediterraneo; in secondo luogo, di opere ambientate in luoghi affacciati sulle sponde del Mediterraneo, ovvero le “città di frontiera, città cerniera”.
Perciò avevo tralasciato i resoconti ovvero i diari dei viaggiatori ed esploratori nel Mediterraneo.
A differenza degli altri luoghi che ho visto nel mio viaggio, Epidauro non si affaccia sul mare (o meglio, vi si affaccia Nea Epidauro, la Nuova Epidauro), e a differenza delle altre opere in prosa che mi accompagnano in questo viaggio dell’anima e della parola, il libro di Miller non è propriamente un romanzo, ma il resoconto di un viaggio, quello di Miller stesso.
Però, la pagina che lo scrittore americano ha dedicato a Epidauro è stata così tersa che la sua lettura ha rievocato la verità della pace che Asclepio è capace di donare: “La strada per Epidauro è come la strada per la creazione. Si smette di cercare. Si tace zittiti dal silenzio di misteriosi inizi. Se si riuscisse a parlare sarebbe in melodia. Qui non c’è niente da prendere, da tesaurizzare, da accaparrare: c’è solo un crollare di muri che rinserrano lo spirito. Il paesaggio non svanisce; fa ressa, si accumula, spossessa. Non attraversi qualcosa — chiamatela Natura, se volete — ma partecipi a una disfatta delle forze di avidità, cattiveria, invidia, egoismo, rancore, intolleranza, orgoglio, arroganza, astuzia, doppiezza e via dicendo. È il mattino del primo giorno della gran pace, la pace del cuore, che viene con la resa. Non sapevo cosa significasse pace finché non arrivai a Epidauro. Come tutti avevo sempre usato questa parola senza capire che usavo un simulacro. La pace non è il contrario della guerra, così come la vita non è il contrario della morte. La povertà del linguaggio, vale a dire la povertà dell’immaginazione dell’uomo o la povertà della sua vita interiore, ha creato un’ambivalenza assolutamente falsa. Parlo beninteso della pace che trascende l’intelletto. Non ve n’è d’altro genere. La pace che i più di noi conoscono è soltanto la cessazione di ostilità, una tregua, un interregno, una bonaccia, un rifiato, ed è qualcosa di negativo. La pace del cuore è positiva e invincibile, non impone condizioni, non esige protezione. È e basta”.
A Epidauro si veniva per curarsi e l’alloggio dei pellegrini, la più grande costruzione dell’Asclepeion, nelle sue 160 stanze accoglieva numerosissimi fedeli accorsi a chiedere aiuto al dio che ridonava la salute e forse un barlume di speranza, l’ultimo bene rimasto nel vaso aperto da Pandora.
“Nella mia mente non esiste mistero riguardo al carattere delle cure che venivano praticate in questo grande centro terapeutico del mondo antico. Qui il guaritore stesso era risanato, primo e principale passo nello sviluppo dell’arte, che non è medica ma religiosa. Secondo, il paziente era già guarito prima di ricevere la cura. I grandi medici hanno sempre parlato della Natura come della grande risanatrice. È vero solo in parte. La Natura da sola non può fare niente. La Natura può guarire soltanto quando l’uomo riconosce il proprio posto nel mondo, che non è nella Natura, come per gli animali, ma nel regno dell’umano, anello fra il naturale e il divino. Agli esemplari subumani della nostra ottenebrata età scientifica il rituale e il culto connessi con l’arte medica come veniva praticata a Epidauro sembrano una pura baggianata”.
Si ergono i resti del tempio di Asclepio, una volta grandiosa costruzione che un’iscrizione del 380 a.C. ricorda come opera dell’architetto Theodotos; all’interno vi dimorava il dio seduto su trono in oro e avorio e, stando alla descrizione di Pausania, viaggiatore greco del II d.C., stringeva in una mano un bastone e teneva l’altra sulla testa di un serpente, mentre ai suoi piedi stava accucciato un cane.
Un grande altare sorgeva a Est, di fronte all’entrata del tempio. I malati in attesa di essere guariti dal dio, per mezzo di un sogno o di un altro intervento divino, si stendevano nell’abaton o enkoimeterion, un cortile porticato, sorretto da colonne di 70 metri; vi era anche un pozzo con acqua dalle proprietà curative, presso l’imboccatura del quale sono state trovate iscrizioni con racconti di guarigione. E si legge la storia della speranza di chi era stato risanato dalla benevolenza di Asclepio, il quale era un dio misericordioso che sapeva ascoltare il cuore degli uomini. Secondo il mito, nacque dall’amore tra una mortale, Coronide, e un dio, Apollo. La fanciulla però tradì Apollo, congiungendosi con un mortale. Il dio del sole, per l’oltraggio subito, fulminò gli adulteri ma, accortosi che la donna portava in grembo la sua creatura, salvò il bimbo, mentre ancora il cadavere della madre veniva divorato dalle fiamme; affidò poi la sua istruzione al centauro Chirone, già precettore di Eracle e Achille.
Non è un caso che Asclepio, sotto la guida del saggio Chirone, abbia sviluppato una disposizione per l’arte medica e abbia appreso le migliori terapie di guarigione; in breve tempo, divenne un medico valentissimo. Ma, dopo che aveva appreso a debellare tutte le malattie degli uomini, voleva tentare l’estrema sfida, sconfiggere la malattia che non perdona: la morte. La superba violazione della legge di natura richiese l’intervento di Zeus, il quale, temendo che Asclepio sconvolgesse l’ordine naturale, lo fulminò con i fulmini fabbricati nell’officina di Efesto; poi Apollo, padre, si vendicò uccidendo proprio i ciclopi che fabbricavano i fulmini.
Girando in questo mare di marmi che si stanno sgretolando, si respira la pace dell’anima che i malati venivano a cercare, trovandola, come primo stadio, nella salute di un corpo vigoroso, rigenerato da Asclepio, il guaritore misericordioso (questo è un appellativo che è ricorrente nel saluto al dio che si legge nelle iscrizioni), perché, come scrive Pindaro, “Asclepio liberava ciascuno dal suo male“.
In questo luogo, sotto un cielo azzurro, regna la forza dello spirito che domina il corpo, la vita della psiche che vince sulla morte somatica. “L’uomo non comincia a vivere grazie al trionfo sul nemico né incomincia ad acquistare salute grazie a cure interminabili. La gioia del vivere viene grazie alla pace che non è statica ma è dinamica. Nessuno può dire di sapere davvero cosa sia la gioia finché non ha fatto esperienza della pace. (…) Tutto questo piagnucolio che si svolge nel buio, questa insistente, pietosa invocazione di pace che si intensifica col crescere della sofferenza e dell’infelicità: dove trovarla? La pace, la gente immagina che si qualcosa da immagazzinare come grano o granturco? È una cosa su cui ci si può avventare e divorarla, come lupi che si azzuffano su una carcassa? Sento persone parlare di pace e le loro facce sono annuvolate dall’ira e dall’odio, dal disprezzo e dallo sdegno, dall’orgoglio e dall’arroganza. C’è gente che vuole combattere per realizzare la pace — sono le anime più illuse. Non ci sarà pace finché la voglia di uccidere non sia eliminata dal cuore e dalla mente. (…) A Epidauro, nella quiete, nella grande pace che scese su di me, udii battere il cuore del mondo. So qual è il rimedio: è rinunciare, abbandonare, arrendersi, così che i nostri cuori possano battere all’unisono col grande cuore del mondo. Le moltitudini che compirono il lungo cammino per Epidauro da ogni angolo del mondo antico erano, credo, già guarire prima di arrivare qui”.
Forse Miller, come migliaia di pellegrini dell’antichità, avrà rivolto la sua preghiera a Asclepio, quando una brutta vecchiaia, segnata da un impietoso e vorace decadimento fisico, affliggerà lo scrittore stabilitosi definitivamente in California, dove la morte, l’ultima malattia che il dio misericordioso di Epidauro aveva tentato di sconfiggere vanamente come ultima sfida, lo coglierà il 7 giugno 1980.
Rimane da vistare il teatro, il più famoso e il meglio conservato dell’antichità (III a.C.), nel quale si tengono rappresentazioni ancora oggi, poiché si può godere, oltre che del silenzio del luogo e della pace che vi regna, di un’acustica eccezionale. Mi ritrovo a leggere le ultime parole di Miller, il quale aveva compiuto questo viaggio all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale, esplosione del male estremo dell’uomo:
“Seduto nel silenzio strano del teatro pensai al lungo e tortuoso percorso con cui ero giunto alfine a questo risanante centro di pace. Nessuno avrebbe potuto scegliere un viaggio più circonlocutorio del mio. Per trent’anni avevo vagato, come in un labirinto. Avevo gustato ogni gioia, ogni disperazione, ma non avevo mai conosciuto cosa significasse pace. Lungo il cammino avevo vinto a uno a uno i miei nemici, ma il mio nemico maggiore non l’avevo nemmeno identificato — me stesso. Entrando nella conca silenziosa, ora bagnata da una luce marmorea, venni al punto, esattamente nel centro, dove il più tenue bisbiglio s’innalza come un uccello lieto e svanisce oltre la spalla della bassa collina, al pari della luce d’un giorno chiaro che si dilegua davanti al nero vellutato della notte. Balboa, sulle cime del Darien, non può aver conosciuto meraviglia maggiore della mia in quel momento. Non c’era più niente da conquistare: davanti a me si stendeva un oceano di pace. Essere liberi, come io seppi di essere in quel momento, significa capire che ogni conquista è vana, anche la conquista di sé, atto supremo di egoismo. Essere gioiosi significa portare l’io alla sua suprema vetta e abbandonarlo trionfalmente. Conoscere la pace è totale: è il momento dopo, quando la resa è completa, quando non c’è più nemmeno coscienza della resa”.
La pace è nell’animo, quindi.
Il viaggio nel Mediterraneo — ora lo so — è sopratutto un viaggio di liberazione e di guarigione dello spirito: “La pace è al centro e quando viene raggiunta la voce sgorga in lode e benedizione. Allora la voce arriva lontano, ovunque, fino ai limiti estremi dell’universo. Allora essa guarisce, perché reca luce e il calore della compassione. Epidauro è soltanto un simbolo di luogo: il luogo vero è nel cuore, nel cuore di ognuno, pur che egli si fermi a cercarlo. Ogni scoperta è misteriosa in quanto rivela cose inaspettatamente prossime, tanto vicine, note da lungo tempo e tanto intimamente”.
Il sole sta quasi calando, e anche la luminosità dei sacri marmi, di cui questo il luogo è disseminato, perde la propria consistenza quando la notte, con le sue ali, giunge posandosi sul nido del mondo.
È ora che io mi rimetta in viaggio, è ora che io mi alzi dal mio posto del teatro di Epidauro e mi affidi allo spettacolo del mondo.
Ma rimango seduto, ancora un momento, al mio posto, senza muovermi, perché — sono le ultime parole di Miller: “Viaggiare è un’impresa interiore, e i viaggi più arrischiati, non occorre dirlo, si fanno senza muoversi dal posto”.
(12 – continua)