Immobilismo, autoreferenzialità, rigidità burocratica e complicazione, sguardo al passato e spesso connivenze con il peso che alcune categorie-quasi-corporazioni giocano al suo interno: la pubblica amministrazione soffre di tanti mali, a volte percepiti in modo esagerato, a volte purtroppo dura realtà. In particolare, uno dei mali che la affligge è la scarsa capacità di rinnovamento e la mancanza di lungimiranza nello scegliere e saper attuare reali meccanismi di modernizzazione e incremento dell’efficacia della propria azione.
In questo quadro, una delle idee più famose di ristrutturazione radicale delle assegnazioni di fondi dal centro alla periferia è quella dei cosiddetti costi standard: in pratica l’indicazione certa di costo uguale per tutti, da Bolzano a Lampedusa, per beni e servizi in uso nella Pa. Si fa spesso l’esempio del costo della siringa, che al Nord arriva al massimo a qualche decimale di euro e in diverse altre situazioni — purtroppo soprattutto al Sud — può costare molto di più. Il tutto senza ragionevoli motivazioni.
E’ dunque di sicuro interesse constatare come un comparto rilevante e qualificato della Pa come l’università abbia — primo fra tutti — introdotto formalmente e concretamente il principio del costo standard per quantificare i contributi che dal centro verranno destinati alle varie università. L’idea di introdurre la determinazione di un costo standard per studente appartiene già alla riforma Gelmini, che però non aveva ancora stabilito quale algoritmo consentisse la valutazione: lo scorso dicembre un decreto del Governo ha finalmente, con grande ritardo, fissato una volta per tutte la complessa formula che anno per anno fisserà la quota che il singolo ateneo percepirà.
L’indicatore individuato per la valutazione del trasferimento è sostanzialmente il numero di studenti in corso che l’ateneo ha durante l’anno. Molti fattori intervengono ovviamente nella definizione del costo standard, come il peso economico che l’università sostiene per l’attività didattica, il numero degli ordinari, la numerosità degli studenti in corso su quelli totali dell’ateneo. Ovviamente si tiene conto del fatto che studenti di percorsi differenti hanno costi differenti: l’area medica, l’area scientifico-tecnologica, l’area umanistico-sociale hanno bisogno di dotazioni molto diverse e quindi il singolo studente ha un impatto in termini di costi differente sul budget annuale. Nella formula compare poi un termine di perequazione legato al costo della vita regione per regione, in modo da compensare la differenza del costo della vita fra una sede universitaria e l’altra.
Non essendo pensabile introdurre un rinnovamento di questo tipo da un giorno all’altro, il Miur ha stabilito che per quest’anno il peso del costo standard sia fissato nella quota del 20% sul totale del trasferimento premiale per ogni università, ma tale cifra è destinata a salire già dal prossimo anno, fino ad arrivare a coprire gran parte della quota premiale del totale entro pochi anni.
La quota premiale è il 18% del totale dei trasferimenti dal centro, il cosiddetto Fondo di Finanziamento Ordinario: sembra poco, ma per un paese come il nostro, nel quale l’intensità degli investimenti in formazione e ricerca resta bassa, un’oscillazione di qualche punto percentuale sul bilancio del singolo ateneo può avere effetti considerevoli.
In questo calcolo i fuoricorso non sono contemplati, tanto è vero che il termine adottato per l’individuazione del costo è “Costo Standard di Formazione per Studente in Corso”: la spesa per mantenere i fuoricorso ricadrà probabilmente sui fuoricorso stessi, cioè potrebbe tradursi in un aumento della tassazione. D’altra parte potremmo assistere a policies differenti da università a università nel trattare da un lato la tassazione dei fuoricorso, dall’altro la strategia didattica. L’introduzione di questo costo standard a regime infatti potrebbe spingere a puntare ad avere il più alto numero di studenti in corso, livellando così verso il basso la selezione agli esami. Ma questa è solo una possibilità teorica.
Quello che è certo è che la complessità della formula adottata (per una disamina si può consultare il sito del Miur) non consente di fare immediate valutazioni di impatto: si può però già intuire che le sedi più piccole e poco attrattive riceveranno meno fondi, lo stesso avverrà per chi non è stato in grado di gestire correttamente e adeguatamente le risorse. In ogni caso l’indicazione di metodo scelto appare andare nella giusta direzione: non più lo storico, che generava situazioni paradossali di atenei che ricevevano trasferimenti dal centro semplicemente perché così era avvenuto negli anni precedenti, ma soggetti che sono invogliati quantomeno a confrontarsi e strutturare proposte di percorsi didattico-formativi sulla base della qualità e dell’efficacia, gestendo al meglio le risorse e cercando di rendersi più attrattivi.
Il criterio ultimo con cui un maturando e la famiglia scelgono l’università sarà perciò sempre meno la facilità a ottenere il pezzo di carta, magari preso senza uscire di casa, e sempre più il fatto che quel percorso aiuta la costituzione del futuro e che per questo obiettivo si debba investire e spostarsi verso la sede che può garantire maggiori opportunità. Spingere le università a questo percorso duro di confronto e innalzamento della qualità didattica e di offerta di opportunità durante e dopo la laurea è sicuramente un fattore positivo, al netto di tutte le obiezioni di dettaglio che possono investire questa innovazione.