È con molta curiosità che ascolto il nuovo lavoro di Daniele Silvestri, cantautore indubbiamente appartenente – in un modo suo – alla scuola romana, reduce dall’ultimo album in comproprietà con Niccolò Fabi e Max Gazzè Il padrone della festa. Non è uno degli artisti di cui ho sentito tutto, solo dei brani sparsi qua e là, quanto è bastato nel passato a farmelo considerare autore ed interprete di razza, ma non a farmici affezionare. Vediamo come va questa volta davanti ad un opus consistente, costituito da 18 brani, scremati da un corpus di 26. Mi sa che si parte per un viaggio lungo, meglio prendere qualche appunto strada facendo.
La mia casa, il brano di apertura, attacca con una chitarraccia elettrica ruvida, che fa subito intravedere un certo cambio di stile rispetto all’ultimo Silvestri. Il suono è corposo, analogico, volutamente sporco e per questo affascinante. L’elenco di luoghi amati fa trapelare una romanità de gregoriana, con un pizzico di Bubola, in un flow continuo infarcito di belle immagini, di ripetizioni con variatio. Traspare anche un suono molto live, con un po’ di rumore lasciato in fondo. Seconda traccia riempita da Quali alibi, singolo in rotazione radiofonica, abbrivio quasi tecno-pop per una canzone fortemente politica, alla maniera di Silvestri, intelligentemente sovversiva. Vittoria a mani basse per un verso su tutti: “Neanche posso non votare, perché non votiamo”. A metà fra il difficile impegno e l’invito al disimpegno.
Si prosegue con la title-track Acrobati: l’interazione dell’uomo con la natura fa venire fuori il Silvestri più filosofico, “non siamo niente, o siamo tutto”. Tutti acrobati in questa vita appesa ad un filo. Pochi giorni si basa su un giro ostinato di accordi su cui la melodia saltella sincopata come i suoni di synth analogico che ampliano la tavolozza. Le vecchie batterie elettroniche appaiono qua e là in un melange di suoni completato dai fiati. La malinconia del restare solo viene riempita di parole veloci che tentano di colmare il vuoto. Un altro bicchiere va invece a ritmo terzinato vagamente rhythm’n’blues, frullato e immediatamente digerito ed espulso fra elementi alieni. Il brano annovera alcuni versi in inglese scritti e cantati da Dellera, seconda partecipazione speciale dopo Diodato nel brano precedente (bassista degli Afterhours il primo, cantautore romano d’adozione, il secondo).
La mia routine è un velato – ma non troppo – attacco alla vita virtuale che talvolta seppellisce la realtà vera e alla ripetitività scontata e banale che appiattisce la vita.
Nota-bene-ad-un-terzo-del-cammino: spero di riuscire ad interpretare bene il senso delle liriche, perché sto volutamente navigando a vista ed ascoltando in cuffia, per la prima volta (salvo ripassare su alcuni brevi passaggi) queste canzoni in cui le parole spesso sono un fiume in piena, ricche di calembour, riferimenti, rimandi, approdi assolutamente da approfondire in seguito. Parte il brano successivo e capisco di aver fatto sosta all’area di servizio proprio in corrispondenza della prima ballata. Così vicina è uno slow, assolutamente non banale, mi riporta alla memoria certi brani laid-back quasi California-style di Beck, e conduce al pianoforte squinternato di La verità, “un’altra immagine confusa che solo il tempo ci chiarirà”, dimesso inno ad un certo confuso mal di vivere, raccontato fra armonie sghimbesce. Nel finale del brano il pattern di batteria perde lo swing e resta ad introdurre, senza soluzione di continuità, il brano 9, Pensieri, che però cambia mondo sonoro e si pone in un particolare territorio di confine fra blues e latin.
Monolocale è un altro brano apparentemente minimalista in cui il ricordo della Formula Tre si mescola con il fantasma di Spencer Blues Explosion, stralunato monologo di una figlia verso il padre morto. Organo, sassofono e chitarre noise per una visione decisamente tragica della famiglia. Un brano duro, decisamente ossessivo, molto singolare, che colpisce per i toni cupi e le descrizioni spietate, senza speranza. Altro featuring di rilievo è quello di Caparezza nel brano successivo, La guerra del sale.
Riemerge la vena politica e polemica: sale come sostantivo, sale come verbo, u-sale, commensale: i giochi di parole si sprecano in questa invettiva che strizza l’occhio ad una poetica da centro sociale. Simpatica l’autocitazione storpiata di Salerò verso la fine della canzone. Valzer completamente acustico e classicheggiante, A dispetto dei pronostici fa apparire anche il tema dell’antimilitarismo e l’avversione alla guerra. Bella la tessitura strumentale, con clarinetto basso, vibrafono, archi e chitarra classica, altro colore nella già ricca tavolozza. E mancano ancora sei pezzi. Davvero tanta roba – e varia – in questo lavoro.
Come se è anch’essa un valzer, anche se diviso ritmicamente in maniera irregolare, con il pattern di batteria ad incastrarsi in un pianoforte avvolgente, più avanti contraddetto armonicamente dal basso elettrico, a creare dissonanze piuttosto strane. L’incertezza di una storia d’amore non definita si riscontrano anche nel vestito musicale. Altro ospite nella traccia successiva, Diego Mancino artista ed autore trasversale della scena milanese.
L’orologio ci porta in un ambiente vagamente inglese, diciamo pure vagamente Clash, se mi si passa il paragone, con una spruzzatina di sax e chitarre noise. La partecipazione di Funky Pushertz unisce un po’ di funk, rap e ragga a Bio-Boogie, possibile tormentone ai concerti e magari in radio, polemica nei confronti dei cibi biologici e delle relative fissazioni ad essi connessi. Tuttosport è un veloce sketch mascherato da valzer che affronta invece la ‘dipendenza’ dai programmi sportivi. E si arriva alla penultima traccia, Spengo la luce, ove ricompare Dellera, in un ambiente ispirato al reggae, localizzato però fra un sirtaki greco e un violino ripescato dalla Senna. Ancora il mal di vivere che emerge dall’insonnia. Diodato è di nuovo ospite invece nell’ultima traccia, Alla fine per l’appunto, tenuta insieme da un arpeggio ostinato di chitarre che ipnoticamente, reiterando sempre gli stessi due accordi, porta il disco verso l’alzarsi della puntina (si fa per dire).
Scusate la lunghezza, ma diciotto brani non sono affatto pochi. Dovessimo individuare una poetica comune, o una canzone memorabile, forse non ci riusciremmo. Quello che riusciamo ad individuare è un lavoro di alta qualità, dove suggestioni personali si mescolano all’analisi a volte spietata di una realtà che spesso non corrisponde. Spietata sì, ma sempre raccontata con leggerezza ed ironia, mescolando generi ed appartenenze musicali in una voluta non-sintesi. Un racconto a molte facce, come la vita, in cui si cammina continuamente su un filo; un racconto sul filo delle parole, usate con maestria ed intrecciate con stile.
Solo alla fine dell’ascolto mi vado a vedere il video di Quali alibi. Nei ritornelli il girato monta e smonta le parole usate ritagliando pezzi di giornale e mostrando i continui richiami ed assonanze. E il giornale ritornanell’impostazione del sito , diario di bordo della creazione e dello sviluppo di questo album, nato in Puglia con il coinvolgimento di musicisti romani, registrando le tracce dal vivo e successivamente… ma questo leggetelo voi, se vi si è accesa una curiosità.