Una anti-rock band per perpetuare l’impeto e la vocazione originale del rock. Del concerto tenuto da Mark Knopfler al Forum di Milano – sesta tappa del Privateering tour – rimane impressa questa istantanea che veicola tutta una serie di riquadri e considerazioni sull’evoluzione del cammino artistico del grande musicista scozzese. La sola possibile fedeltà ad un autentico stile di vita rock in grado di penetrarne il senso più recondito e radicato risiede in un paradosso. La libertà di non essere rock, o almeno fare i conti, vivere e guardare nel profondo la natura irriducibile di quella grande esperienza. Sfrondare quella musica di tutta la roboante sarabanda coreografica della pur grande espressione degli anni d’oro, quelli di salti e giravolte sul palco, dell’istrionismo di rito, della giovane esuberanza.
I Dire Straits con il loro abito sgargiante, ricco e ultradecorato sono grande esperienza di ieri, una grande memoria da custodire cosi com’è ci è dato – supporti, fotografie e DVD – bellissimi da gustare e riscoprire non meno di quanto lasciato in eredità da altri grandi ensemble storici. Oggi quel patrimonio – quei grandi sentieri del cuore e della mente – vengono ripercorsi con il passo e il portamento del Knopfler che abbiamo di fronte, non un rocker reduce che gioca a fare il giovane a sessant’anni, ma uno che vuole essere intero e felice dentro le inevitabili piaghe e i segni dell’età. Uomo vero e fino in fondo.
Basta passare in rapida rassegna i componenti della band per rendersene conto. Girovaghi, mediomen, vecchi ragazzi di contrada, musicanti di quartiere. Il forte temperamento rurale dei folk insiders John McCusker (violino, cetra) e Michael McGoldrick (flauti, cornamuse), la praticità schietta di Richard Bennett (chitarre ritmiche), la dedizione attenta e abile di Ian Thomas (batteria). E poi c’è babyface Guy Fletcher, paziente custode del riordino domestico dell’architettura sonora, un Jim Cox titolare delle fioriture tastieristiche che ironicamente sembra essere stato scaricato dall’ultima diligenza del flower-power, fino all’alto, allampanato e scheletrico bassista Glenn Worf, qualcuno in cui sembra di specchiarsi come se un bel dì uno come il sottoscritto si trovasse a salire su un palco come per uno scherzo del destino, quasi senza preavviso.
Mark Knopfler li dirige e li spalleggia, ne asseconda e condivide moti, sguardi e fremiti del cuore. Il set prevede brani cardine all’inizio e alla fine della sessione regolare oltre ad una parte centrale variabile all’insegna di un turnover e di una flessibilità di scelta molto maggiore che nel tour dello splendido Get Lucky. I bis sintetizzano questi due differenti approcci.
In apertura il duetto – confermato nelle varie serate – What It Is e Corned Beef City. La prima più quieta e sorniona del solito si riappropria della sua antica tempra ritmica nella ripresa finale del riff. La seconda è la riedizione debitamente aggiornata della liturgia r’n’r consacrata in Walk of Life, ed è anche è il primo degli estratti da Privateering che nella serata viene rappresentato più dalla sua anima ritmata che non da quella più intima e riflessiva (nelle serate precedenti si sono passate il testimone le arie epiche di Haul Away, Yon Two Crows e Kingdom of Gold).
Scorrono I Used to Could e Gator Blood, disimpegni rock blues tanto seriali su disco quanto divertenti nella resa live per quell’immediatezza scaltra e complice dell’interazione artista/audience. La palma di centerpiecedell’ultimo lavoro spetta così alla stessa title track che si dipana senza requie tra danza popolare e incrementi bandistici dando ingresso ad una prima sezione di sapore folk che parte lenta e pensosa con Father and Son, per poi registrare una crescita graduale e inarrestabile con la consueta Hill Farmer’s Blues e il bel ripescaggio di Back to Tupelo. Un mood simile sarà reiterato nella seconda parte dello show da Postcards from Paraguay e Marbletown.
La linea mediana dello show accoglie il rito dell’ovazione del pubblico per il succedersi senza soluzione di continuità di una Romeo and Juliet sempre più recitativa nella voce di Knopfler e sempre più ubriaca di un senso di perdita nei fraseggi finali dell’elettrica, mentre Sultans of Swing è emblematica della paziente e inarrestabile metamorfosi del linguaggio dello scozzese. La ritmica travolgente di un tempo è rilevata da un incedere più compassato che sembra vagheggiare la danza celtica con tanto di ritorno al furore sbrigliato di un tempo con la febbrile successione di quartine del solo conclusivo.
Nel finale del set regolare emerge di schianto il forcing perentorio, incandescente e inarrestabile di Speedway at Nazareth, sempre più superlativa e scaraventata dalla chitarra elettrica del nostro in un vortice di paesaggi sonori. A seguire la sterminata Telegraph Road, brano che forse rappresenta una trilogia della frontiera in musica, una maratona contesa tra rintraccio dello Springsteen lirico e variegati deliri tra rock sinfonico e spunti letterari.
Il bis corale e liberatorio di So Far Away sembra rappresentare il sigillo definitivo della serata, la band lascia intendere di aver terminato ma rimane sul palco incrociando mani, teste e cuori come nell’auto-incitamento prima di un match della vita. Ed è proprio così. In un intarsio di electric lead, violini e cornamuse Piper to The End, capolavoro del Knopfler innovatore dell’antico e mai sopito mistero del folk celtico denso di visione e nostalgia, è il match della vita. E’ la lunga, inestricabile tradizione di padri, madri e antecedenti che si sposa al rock, e del rock rappresenta il lungo congedo, la lenta uscita dalla scena di questo folle mondo che mescola realtà, sognanti finzioni, dimore fragili e provvisorie per dirigersi alla volta di una dimora sconfinata che non ha bisogno di rinunciare al cielo per accogliere la nostra indole tempestosa.