Pino Scotto è un personaggio cult della televisione via satellite. Da anni tiene un programma su Rock Tv che potrebbe essere definito trash per il linguaggio che usa, ma in fondo Pino è un napoletano verace, impulsivo e istintivo, animo da metallaro doc. Musicista e cantante con una lunga carriera alle spalle (ha superato i 60 di età ma mantiene una invidiabile chioma stile indiano comanche) è sempre stato lontano da qualunque carrozzone commerciale, con una fedeltà alla sua musica davvero invidiabile e tutt’oggi si esibisce con dignità in ogni localino che lo ospita, dalla provincia di Trasimeno fino a Pizzo Calabro.
Un programma, il suo, dove manda in onda video dei suoi gruppi e artisti preferiti, con competenza di scelte (i grandi dell’hard rock soprattutto, ma non solo) e poi risponde alle domande dei fan. E’ proprio questo spazio che è diventato di culto in televisione ma anche su youtube dove i suoi interventi vengono ripresi e visti da migliaia di persone. Pino Scotto usa certamente un linguaggio volgare, infarcito come è di parolacce e insulti assortiti, ma neanche tanto diverso da quello che può usare un pizzaiolo o un parcheggiatore della sua città quando si arrabbiano. Perché Pino Scotto ce l’ha a morte con talent show, reality show, festival di Sanremo e quant’altro, con tutto quello che secondo lui uccide la passione per la musica. E’ divertente fino al parossismo, ma ogni tanto però gli scappano anche perle di saggezza che dimostrano una capacità di giudizio che pochi oggi hanno, in televisione o nella musica. “Il rock è morto il giorno in cui quelle m… del business hanno capito la fragilità dei giovani”, ha detto ad esempio qualche sera fa, aggiungendo epiteti coloriti su programmi come quelli della De Filippi, esperta di talent show.
Ha detto un gran cosa Pino Scotto in quell’occasione, che è sempre sfuggita ai tanti addetti ai lavori. Quella frase ha colto nel segno con una lucidità sorprendente. La fragilità dei giovani è un concetto assai importante e su cui effettivamente si è costruita una industria dei soldi colossale almeno fino a poco tempo fa quando i dischi si vendevano ancora. Ma anche oggi che le stelline dei talent show sono obbligate a far forza su quella fragilità per avere appeal. Qualcuno può obbiettare che la canzone pop è sempre stata imbastita su questo aspetto, e cioè descrivere e cantare le disillusioni d’amore, i cuori infranti, le pene del cuore. C’è una differenza sostanziale però. Soprattutto vale la pena soffermarsi per capire in cosa consiste la fragilità dei giovani, qualcosa che al cinismo imperante di oggi appare sciocchezza appunto adolescenziale.
Quando si è adolescenti si ha una apertura del cuore che è enorme e che spesso il cinismo dell’età adulta uccide. Innamorarsi, soprattutto in modo platonico, è la sostanza della quotidianità. Attraverso le famigerate cotte (descritte magnificamente nel Charlie Brown e la sua ragazzina dai capelli rossi) si esprime una dipendenza, un bisogno affettivo enorme che si apre nel cuore dei giovani quando si comincia a passare dalla dipendenza dai genitori alla propria indipendenza, scoprendo faticosamente che nella vita è impossibile non essere dipendenti, cioè aver bisogno di un “altro”. Quel passaggio rischia di rimanere un momento di solitudine schiacciante, c’è bisogno di un altro. Qualcuno riesce a tenere desto questo buco del cuore anche da adulto: verrà solitamente definito “un eterno bambino”, un disadattato. Questi disadattati spesso e volentieri cercano riparo e rifugio proprio nelle canzoni, ma questo è altro argomento seppur non dissimile.
Sta di fatto che le canzoni pop e rock hanno da sempre raccontato questo buco del cuore e i giovanissimi vi hanno trovato l’appiglio a cui aggrapparsi: è da questo bisogno che è nato negli anni un mercato fiorente e portatore di soldi. Ma se una volta – la fine degli anni 50, gli anni 60 – questo mercato era fatto da giovani che parlavano ad altri giovani – gli autori di canzoni, gli interpreti, i discografici stessi erano insomma sulla stessa barca e comunicavano tra di loro – con i decenni si è creato un solco fatto di puro sfruttamento di una reale contingenza. Ecco allora a cosa si riferiva in modo così brillante Pino Scotto: oggi alle stelline dei talent show sono maturi cinquantenni e sessanteni che scrivono loro le canzoni obbligandoli a esprimere cose che vengono loro imposte su dei cliché. Ci sono i “coach” che li addestrano a come muoversi sul palco, quale espressione facciale (meglio se addolorata) sfoggiare. Pino Scotto ha colto il meccanismo stesso insito nel talent show, dove la canzone di fatto finisce in secondo piano: la “vera” fragilità che fa presa è quella che giorno dopo giorno viene stuzzicata dai vari giudici o maestri che rimarcano difetti, fisici o caratteriali, che impongono ai ragazzini le regole di un business costruito a tavolino. No è raro infatti che i ragazzini stessi in un primo momento reagiscano ingenuamente e con tanta verità buttando fuori la disperazione per un commento negativo, poi però s’infurbiscono, capiscono che è proprio quello il meccanismo che funziona.
Anche il tema delle canzoni è cambiato, si spacciano riferimenti sessuali, storie d’amore degne di un quarantenne allo sbando come storie vissute realmente da questi ragazzi. Ragazzini costretti a comunicare qualcosa che in realtà non vivono; la pura innocenza delle canzoni di una volta si trasforma in pseudo tragedie sentimentali dove il sesso nella maggior parte dei casi e le relazioni usa e getta hanno sostituito tutta la purezza di una esigenza realissima. I giovanissimi sono obbligati a recitare un ruolo e a indossare più anni di quelli che hanno davvero, per sfruttare la fragilità dei loro coetanei che hanno un bisogno inderogabile che qualcuno canti del loro malessere. C’è chi ha vinto anche un Sanremo cantando di ” far l’amore in tutti i modi, in tutti i luoghi in tutti i laghi in tutto il mondo”.
Quando cinquant’anni fa Carole King cantata “Will you stil love me tomorrow?”, mi amerai ancora domani, esprimeva tutta la sua sofferenza adolescenziale e la condivideva in modo irresistibile ad altre ragazze come lei. Quando le Ronettes cantavano “Per ogni bacio che mi dai te ne darò indietro tre, dal giorno che ti ho visto, ti ho aspettato, ti adorerò per tutta l’eternità: allora ti prego, sii il mio bambino, il mio piccolo bambino” c’era un senso di una promessa e di una aspettativa che combaciava con quella di milioni di altri cuori.
Quando Elvis cantava dell’hotel dei cuori spezzati, l’Heartbreak Hotel, metteva paura e raggelava il sangue nelle vene: qui c’è qualcosa di molto più grande, oscuro e inquietante che una cottarella (“Mi hai reso così solo baby, che potrei morirne”). E il verso apparentemente più sciocco della storia del rock (“She loves you yeah yeah yeah”) contiene invece una tale gioiosa positività che ancora oggi è irresistibile.
Oggi senza fare nomi, quando sentiamo certi protagonisti di talent show o altre trasmissioni sgolarsi, perdersi in improbabile urla sguaiate, esprimendo un melisma talmente finto da suonare inascoltabile, tutto il contenuto della promessa è sciacquato in un atteggiamento che fa a pezzi l’innocenza di una età per sostituirla con la pretesa di un’altra. Non solo Italia, ovviamente, anzi: i casi di idoli per teenager sfornati a dozzine come Justin Bieber o One Direction riempiono l’etere di una giovinezza castrata nel suo slancio ideale. Sono tutte star lanciate allo sbaraglio a età impossibili, dodicenni e tredicenni. Non è un caso che l’età delle nuove star della musica pop si abbassi sempre di più, fa parte ovviamente di un piano marketing che la dice lunga di quanto abbia ragione Pino Scotto: il business ha ucciso la musica quando si è impadronito della fragilità dei giovani.