Piero Rattalino, una vita dedicata al nero strumento a tre gambe. Descrive il mondo della musica riflesso sui tasti del pianoforte: in rigorose strisce bianconere. Allo stesso tempo, accende la sua scrittura di colori carnivori e fa squillare la fantasia in maniera invidiabile.
Abilissimo comunicatore, come Stravinski cavalca il successo, detta le mode, vince ogni contrattazione. I pianisti lo cercano e lo temono: un suo elogio apre parecchie porte. Generazioni di studenti si sono formate (e accapigliate) intorno ai suoi libri. Direttore artistico di Enti Lirici, specializzato nel mettere pulci nelle orecchie del pubblico; giudice inflessibile, imprevedibile e polemico in blasonati (ingessati?) concorsi pianistici; inossidabile consulente del Festival “A. B. Michelangeli”.
Docente all’Accademia di Imola, pubblica quattro/cinque libri l’anno, trasforma ostiche biografie di compositori in romanzi godibilissimi, ha “intervistato” Mozart, Chopin, Berlioz, la Traviata, e sposato una giovane allieva coreana con la metà dei suoi anni (ottanta, compiuti il 18 marzo).
Piero Rattalino beve un elisir di lunga vita o ha stretto il classico patto col diavolo? «Voglio conoscere. Mi piace ancora il mondo e l’umano continua a incuriosirmi».
Com’è il pianismo internazionale degli ultimi trent’anni? «Qualcosa è cambiato, ma troppo poco. È mutato molto di più il mondo di coloro che suonano gli strumenti storici, clavicembalo e fortepiano, che ha riconquistato una libertà di approccio al testo sconosciuta ai pianisti. La mentalità conservatrice ha prevalso sulla mentalità creativa, l’espansione di presenze del pubblico si è arrestata e si è stabilizzata a un livello troppo basso, con un costo per la collettività troppo alto. Il recital pianistico rischia oggi, se non di scomparire, di limitare il suo raggio d’azione alle grandi città».
Chi sale e chi scende? «Mi sembra che nella musica ci sia un solo paese oggi emergente, la Cina: moltissimi dilettanti, un’economia in fase di espansione, centinaia di nuove sale da concerto in costruzione».. Quali giovani pianisti ha avuto modo di notare? «L’unico che mi abbia veramente interessato ultimamente è Lang Lang. Non è affatto maturo come artista, ma è uno showman ed è spregiudicato. Purtroppo il mondo pianistico, invece di studiarlo per capire le ragioni del suo successo, lo critica in base a preconcetti».
E l’Italia dove si colloca in questa graduatoria mondiale? Conserviamo ancora un suono italiano? «L’Italia mantiene le posizioni che ha avuto nel Novecento, ma in questo momento mancano personalità del calibro di Benedetti Michelangeli e di Pollini. Non credo che esista un suono italiano; si potrebbe parlare di “fraseggio all’italiana”, se si applicasse alla musica per pianoforte la declamazione dei melodrammi. Il che non avviene più da decenni».
I nostri Conservatori sono al passo con i tempi? «Gli allievi italiani che studiano nei conservatori raggiungono il livello minimo di preparazione professionale con un ritardo di almeno cinque anni rispetto ai giovani di altre nazioni, specie orientali. Il sistema didattico è antiquato, le scelte di repertorio sono convenzionali, non basate sulle qualità individuali ma su modelli astratti. L’interpretazione è una questione di conoscenza e coscienza. Bisogna sapersi assumere rischi, anche mortali».
Cosa ascolteremo nel prossimo Festival “Michelangeli” di Brescia e Bergamo di cui Lei è consulente? «Il Festival è una manifestazione a tesi, non una parata di stelle, sebbene le stelle non siano mai mancate. Il tema di quest’anno secondo me è molto stimolante. Mi auguro che i singoli concerti portino delle sorprese, ma non faccio previsioni: per scaramanzia, ovviamente».
A cosa servono più di milleduecento cattedre di pianoforte in Italia? «A formare un esercito di praticanti, i dilettanti di una volta». Musicalmente siamo al capolinea? «Certo. Ma i capolinea sono sempre due. Esiste la strada del ritorno, dopo l’andata».