C’è un repertorio del teatro in musica italiano degli anni a cavallo tra l’ultimo scorcio del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo che le fondazioni liriche del nostro Paese hanno per diversi lustri quasi completamente dimenticato, mentre miete ancora meritati successi all’estero (specialmente negli Stati Uniti ed in Germania, nonché in alcuni Paesi dell’Europa Centrale, ad esempio l’Ungheria).
E’ il repertorio che, in giustapposizione (ma non in contrasto) con il “verismo” esplorava un sentiero che, pur italianissimo, si ricollegava a Wagner, Debussy ed al primo Strauss. In breve, la tragedia lirica musicale. L’idea di base era di fondere il cromatismo wagneriano (segnatamente quello di “Tristan und Isolde”) con quella tragedia lirica italiana, che in teatro trovava la sua maggiore espressione in Gabriele D’Annunzio. Anche nella scuola “verista” – sempre sulle nostre scene (soprattutto grazie a Giordano, a Leoncavallo, al primo Mascagni) – si conducevano ricerche su questi percorsi musicali, ma in maniera molto più contenuta: lo stesso Puccini – vale la pena ricordarlo – morì insoddisfatto in quanto non riuscì a comporre quel duetto finale di “Turandot” che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere la risposta italiana al duetto del secondo atto del “Tristan”.
Il repertorio della tragedia lirica musicale italiana a cavallo tra i due secoli ha capolavori sommi, quali “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi; per alcuni anni, due lustri fa, si poteva gustarlo, quasi ogni stagione, facendo una gita a Zurigo; è opera breve, perfetta per una serate inaugurale; speriamo che qualche sovrintendente e direttore artistico se ne ricordi.
Un maestro della stazza di Gavazzeni si adoperò perché questo repertorio non venisse dimenticato; il vostro chroniqueur ricorda una splendida Parisina di Mascagni, da concertata proprio da Gavazzeni, colta a Roma attorno al 1975 durante una sosta di viaggio da Washington (dove allora viveva) in Africa. Ora il Teatro alla Scala ne sta riportando alla luce alcune ghiottonerie. Tale è “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai che nella sala del Piemarini non si vedeva dal 1959, quando la concertò proprio Gavazzeni, ma che ha avuto un revival a Roma ed a Macerata nel 2004 in due produzioni differenti caratterizzate dallo stretto rapporto tra Daniela Dessì e Fabio Armiliato. A Roma era ambientata da Alberto Fassini in contesto che assomigliava, più che alla Ravenna ed alla Rimini del Medio-Evo, al quartiere Coppedé, la massima espressione dell’architettura liberty a Roma; vi abitava Beniamino Gigli. Anche la è produzione di Macerata (di cui esiste un DvD), l’azione era in un contesto art nouveau con l’immenso palcoscenico dello Sferisterio colmo di fiori. Un piccolo particolare; le prime inquadrature del film di Antonioni del 1950 Cronaca di un Amore si svolgono in una ‘prima’ alla Scala dove è in scena Francesca da Rimini – segno che allora l’opera era ancora rappresentata di frequente.
In questa nuova produzione, la regia di David Putney (scene di Lesley Travers; costumi di Marie-Jeanne Lecca; coreografia di Denni Sayers, luci di Fabrice Kebour) collocano la tragedia in un ambiente che pare essere quello della prima guerra mondiale (il debutto dell’opera avvenne a Torino nel febbraio 1914 quando a distanza si sentivano già i rulli di tamburi che avrebbero portato a Sarajevo) C’è un tocco liberty nel primo atto (che si svolge a Ravenna) ma nei tre seguenti siamo in grandi costruzioni guerresche. E’ un scelta che ha una sua logica ma il vostro chroniqueur trova più appropriata un contesto liberty o art nouveau anche perché il libretto di Gabriele D’Annunzio (adattato da Tito Ricordi) debuttò nel 1901 quando i sentori di conflitto erano lontani e si respirava ancora la Belle Époque.
Tanto la scrittura orchestrale quanto la vocalità sono impervie. Fabio Luisi ha dato una splendida lettura della prima facendo avvertire i richiami a Debussy ed a Strauss e, specialmente nel terzo atto, a Wagner. Che meraviglia l’assolo di violoncello al termine del primo atto!
Arduo trovare interpreti per un lavoro in cui il declamato si scioglie in ariosi ed in cui ciascuna parola deve essere compresa, sovrastando un enorme organico orchestrale. L’onere è sulle spalle soprattutto di della protagonista (Maria José Siri), in scena in tutti i quattro atti, alle prese con passaggi difficilissimi dai “do” ai “sì naturali”, da estenuanti declamati ad ariosi e duetti (quelli con “Paolo il bello”, Marcelo Puente ) densi di passione; una sfida riuscitissima. Puente è un tenore argentino avvenente e dà sfoggio di una voce matura leggermente brunita con un ottimo centro, da rasentare quella di un heldentenor . La tragedia richiede anche un tenore lirico nel ruolo perfido, pervertito e sadico di Malatestino: il ruolo va a pennello a Luciano Ganci. Gabriele Viviani è un Giovanni lo sciancato, con tutta la truculenta richiesta dalla parte. Di livello tutto il resto del numeroso cast.
Il pubblico della Scala ha reagito con applausi calorosi