“Fantasma”, il sesto disco dei Baustelle, è finalmente uscito. E si dimostra essere quel lavoro ambizioso che aveva fatto presagire alla vigilia: 19 tracce, quasi 80 minuti di durata, la partecipazione massiccia della FilmHarmony Orchestra di Breslavia, la collaborazione di Enrico Gabrielli dei Mariposa, arrangiatore delle parti sinfoniche, il concept sulla vita, sulla morte e sull’inesorabile scorrere del tempo.
Un lavoro ambizioso, dicevamo, ma già dopo qualche ascolto, definirlo pretenzioso non appare più un’esagerazione. Si sa, quando si inizia a piacere a tanta gente, è lì che iniziano i problemi di una band. Il rapporto tra fruizione di massa e valore artistico è sempre molto difficile da bilanciare (in molti sostengono che non esista neppure) e il grande successo è spesso considerato una maledizione, piuttosto che un traguardo desiderato.
C’è da dire che finora i Baustelle erano andati alla grande: dischi come “La malavita” (che li ha fatti conoscere al grande pubblico) e “Amen” (che li ha definitivamente consacrati), pur presentando canzoni decisamente meglio curate e definite negli arrangiamenti, avevano mostrato notevoli passi avanti rispetto al songwriting valido ma ancora acerbo dei due precedenti capitoli. Rimanevano dischi dei Baustelle, insomma, seppur meglio confezionati. Con “I mistici dell’Occidente” qualche cosa aveva iniziato a cambiare: i testi si erano fatti via via meno crudi, meno ironici e meno irriverenti, abbracciando immagini più convenzionali; la musica aveva in parte seguito questa evoluzione divenendo forse più lineare e “cantautorale”. Un disco nel complesso meno clamoroso di “Amen”, meno violento nel suo impatto generale, che annoverava comunque una serie di ottimi episodi e che ci aveva consegnato una band in sicura crescita evolutiva.
Questo “Fantasma”, sulla carta, avrebbe dovuto segnare un ulteriore punto di arrivo: registrare con un’orchestra è il sogno di molti musicisti rock e per un paroliere dotato come Bianconi, il concept album appariva il terreno ideale con cui cimentarsi.
Dispiace dire che l’esperimento non è riuscito. 19 tracce, diciamolo subito, sono troppe. Troppe per un mondo musicale ormai soffocato dall’abbondanza di offerta, bulimico a furia di download, che grida disperato il ritorno ai 33 giri da 40 minuti. Christopher Owens, tanto per citarne uno, ha appena pubblicato un disco che ne dura appena 29, e che è un toccasana per le orecchie. Bisogna essere davvero molto sicuri di sé stessi (oppure avere tantissimo da dire) per imporre al proprio pubblico una prova così impegnativa.
Non è solo quello: uno dei punti di forza di “Amen”, ma anche dei dischi precedenti, era la varietà stilistica. Si passava dal rock al pop, dalla New Wave al Western, dall’elettronica al dark. Qui c’è ben poco di tutto ciò: l’ispirazione principale pare essere diventata la musica popolare italiana degli anni ’20 e ’30 e i cantautori come De André (l’attacco di “Nessuno”, da questo punto di vista, pare quasi un plagio), Tenco o Piero Ciampi. Influenze che erano già presenti su “Mistici dell’Occidente” ma che ora diventano preponderanti, al punto da occupare ogni spazio disponibile. A farne le spese è così l’eclettismo del gruppo, che appare costretto all’interno di un processo di normalizzazione a tutti i costi, un tentativo di rendere più quadrato e definibile il proprio sound e, perché no, strizzare l’occhio ad una nuova fetta di fan. Potrebbe anche non essere un male, ma di sicuro sarà molto difficile che i ragazzini che cantavano “Charlie fa surf” o “La guerra è finita” possano prendersi bene per le composizioni di “Fantasma”. Che poi, a livello musicale, risulta tremendamente a tinta unica. Ballate nostalgiche e malinconiche in cui le parti orchestrali risultano la cosa migliore ma che spesso appesantiscono il tutto con introduzioni o finali eccessivamente lunghi. Per non parlare poi degli intermezzi (sette in tutto) che hanno sicuramente senso all’interno dell’insieme ma che davvero rendono questo disco pesante come non mai.
Poi, se si vanno a guardare le singole tracce, c’è anche di che rallegrarsi: “La morte non esiste più”, che è anche il primo singolo estratto, ha un ritornello facile e contagioso e un lavoro di chitarre semplice ma efficace. Oppure “Diorama”, decisamente più ostica nel suo andamento salmodiante, che si apre poi in una delle melodie tipiche di Bianconi e che nel complesso funziona davvero bene, complice il riuscito matrimonio tra archi e chitarre acustiche. Tra le cose più belle del disco, forse la più bella in assoluto.
C’è anche “Cristina”, uno dei pochissimi momenti in cui il ritmo accelera un po’ e dove si risentono quegli echi morriconiani che avevamo apprezzato nei due precedenti lavori. Interessante anche “Contà l’inverni”, sorta di Murder ballad in romanesco.
Il resto, spiace dirlo, è poca roba, anche dove (come in “Maya colpisce ancora” o in “La natura”) c’è un chiaro tentativo di ricreare quei brani che hanno fatto la fortuna della band. Non contribuisce all’insieme il fatto che la voce di Bianconi manifesti tutti i limiti di cui già si sapeva. Dal vivo aveva iniziato a cavarsela molto meglio ma la particolare atmosfera di questi pezzi avrebbero necessitato doti interpretative che, ahimé, non possiede proprio. Se la cava molto meglio Rachele Bastreghi, l’altra anima di questa band, vera protagonista su “Monumentale” e sulla conclusiva “Radioattività”.
Anche sul fronte dei testi non c’è da stare allegri. L’ironia cinica e corrosiva di brani come “Il liberismo ha i giorni contati”, è ormai sparita, la violenza pulp di “Antropophagus” o “Gomma” è un lontano ricordo; rimane l’attacco al perbenismo e all’ipocrisia dei nostri tempi ma è ora ammantato di qualunquismo, non più di caustica irriverenza.
L’idea di fondo è quella dello scorrere del tempo: siamo dentro un divenire inesorabile che porterà via tutte le nostre certezze, tutte le cose e le persone che abbiamo amato e ci tramuterà in fantasmi. Non anime tormentate intrappolate loro malgrado in questo mondo ma (così sembra), immagini sbiadite di un tempo che fu, ricordi sfocati che invano ci affanneremo a riportare in vita. Di per sé interessante, se non fosse che l’iniziale dichiarazione d’amore di “Nessuno” è ammantata di negazioni francamente abbastanza trite (“Non credo alla Bibbia, non vedo perché dovrei consultarla, non credo alla Chiesa”, ecc.) e le solite sparate sul “figlio di troia che appalta la Rai”. Cose che sarebbero andate bene nel salotto di Santoro, non certo su un testo di Bianconi.
Nei primi brani si avverte come l’esigenza di trovare qualcosa che preservi l’amore dall’estinzione: accade in “La morte non esiste più”, mentre in “Diorama” le sale del Museo di Storia Naturale di Milano diventano una metafora della cristallizzazione dell’istante come improbabile rifugio dai colpi del reale. Il gusto un po’ noir e un po’ bohemien della band affiora in “Monumentale” (altro tributo ad una Milano che già in precedenza era stata spesso cantata) ma il neanche troppo ironico invito a lasciar perdere l’overdose di comunicazione odierno per rifugiarsi tra le tombe, appare quanto mai stucchevole. Meglio il Pasolini di “Baudelaire”, da questo punto di vista. In “Cristina” si rivisitano amori giovanili, con quel mood malinconico e nostalgico che già affiorava ne “Le rane”, mentre “Il futuro” segna il momento in cui la sconfitta diventa palese (“E potremo anche avere altre donne da amare, e sconfiggere l’ansia e la fragilità, e magari tornare a sbronzarci sul serio nella stessa taverna di vent’anni fa. Ma diversa arriverà la potenza di un addio, o la storia di un amico entrato in chemioterapia, e la vita che verrà ci risorprenderà ma saremo noi ad essere più stanchi”).
Le cose peggiori, neanche a farlo apposta, stanno alla fine: di frasi come “Sono millenni che da scimmie cazzeggiamo col potere, col mito dell’avere, amori e religioni e non cambiamo mai” all’interno di un pezzo che si intitola “Maya colpisce ancora” proprio non ne sentivamo la mancanza. E quando in uno degli ultimi pezzi cantano che “Tornerà la terra meravigliosamente bella dopo l’estinzione della razza umana”, viene da chiedersi che cosa abbia provocato una tale capitolazione al luogo comune e al politically correct.
In definitiva, i Baustelle sembrano aver peccato di ubris e nel tentativo di confezionare un prodotto che potesse far parlare di “maturazione” e “nuova consapevolezza”, ci hanno dato un lavoro dove qualche sprazzo di classe non serve a tenersi a galla in mezzo a un mare di pesantezza e di verbosità. Da più parti si griderà senz’altro al capolavoro: con una band così popolare è difficile che non succeda. Per quanto mi riguarda, preferisco aspettarli al prossimo giro.
(Luca Franceschini)