L’esecuzione in tempi moderni di opere di Georg Friedrich Händel comporta enormi problemi. In primo luogo, la durata: l’integrale di “Giulio Cesare in Egitto” sfiora i 250 minuti. In secondo luogo, la tessitura: quando i lavori di Händel per il teatro ricominciarono ad apparire (in sostanza nella seconda metà del Novecento dopo alcuni tentativi sperimentali all’inizio del secolo), dato che i principali ruoli maschili erano stati scritti per castrati, non c’è altra scelta che abbassarli di qualche ottava per affidarli a baritoni (o anche a bassi-baritoni) oppure, come si fa adesso, utilizzare mezzo-soprani o contralti.
In terzo luogo, l’orchestrazione era stata concepita per strumenti d’epoca, in pratica introvabili. In quarto luogo, le arie erano ripetitive (articolate, spesso, su due “da capo”). In quarto e ultimo luogo, gli allestimenti erano difficili e onerosi poiché prevedevano frequenti cambiamenti di scena (in epoca barocca risolti tramite siparietti dipinti e complessi macchinari).
L’edizione che rilanciò il “Giulio Cesare in Egitto” in tempi moderni fu il risultato di alcuni testardi – Beverly Sills, Norman Triegle, Julius Rudel, Tito Capobianco e Ming Cho Lee – in un teatro allora secondario, la New York City Opera (fratello molto minore del Metropolitan che lo fiancheggia al Lincoln Center). Nel 1966, Rudel non aveva alcuna ambizione filologica: tagliò a destra e a manca; Capobianco (regia) e Ming Cho Lee si ispirarono al bianco e nero di Piranesi, Cesare era incarnato dal miglior basso-baritono su piazza (Triegle) e le seduzioni di Cleopatra affidate alla Sills.
L’edizione ebbe in enorme successo; fu portata in tournée attraverso gli Usa – reggeva ancora bene alla metà degli Anni Settanta quando la compagnia visitò il Kennedy Center di Washingtion dove la vidi e ascoltai.
Il rilancio europeo ebbe luogo a Monaco di Baviera, sempre con un basso baritono (Fischer-Dieskau) come protagonista, l’affascinante Troyanos nel ruolo della Regina d’Egitto, la bacchetta di Karl Richter (che aveva tagliato una mezz’ora di musica) e un’ambientazione abbastanza tradizionale.
Affascinante l’allestimento romano del 1984 con Margerita Zimmerman e Monserrat Caballé, con Gabriele Ferro alla guida dell’orchestra e la regia di Alberto Fassini; si era scelto un mezzo soprano come protagonista maschile. L’allestimento ebbe successo e venne ripreso qualche anno più tardi con Cecilia Gasdia nel fulgore delle sue qualità sceniche e vocali.
Una decina di anni fa vidi un allestimento, co-prodotto dal Teatro Real di Madrid e dal Teatro Comunale di Bologna, oltre un’ora di musica veniva eliminata, tagliando completamente sette dei 45 numeri, riducendo i recitativi e operando anche all’interno delle singole arie (falcidiando i “da capo”); lo spettacolo non durava più di tre ore e mezzo (rispetto alle oltre quattro ore delle edizioni romane del 1984 e del 1998 e di quella di Martina Franca del 1989).
I ruoli maschili erano affidati, in gran misura, a mezzo-soprani e contralti, nonostante che nell’opera, Giulio Cesare, giunto a 54 anni d’età, in Egitto sia più seduttore che condottiero. La scrittura orchestrale non veniva modernizzata (dirigeva Rinaldo Alessandrini); non si scivolava, però, nella tentazione di aggiungerle fioriture alla Hornancourt. Luca Ronconi trattava gli aspetti scenici con misura: un impianto fisso con due maxischermi dove venivano proiettati spezzoni di deserti e piramidi nonché di vari “Cesare e Cleopatra” della miglior tradizione di Hollywood e di Cinecittà.
Il kitsch veniva esaltato dai costumi (dai romani in abito coloniale a Cleopatra abbigliata alla Claudette Colbert). In questo quadro, il complicato libretto di seduzioni, intrighi, tradimenti e sangue veniva letto con ironia dall’inizio alla fine.
Questi non sono che alcuni esempi di allestimenti che ho visto e recensito: considero “Giulio Cesare in Egitto” come una pietra miliare del teatro in musica non solo per la caratterizzazione dei personaggi (insolita in un’epoca barocca dove i vocalizzi contavano più dell’evoluzione psicologica) ma anche perché anticipa – ad esempio l’uso del recitativo accompagnato che esplode in un’aria nella scena dell’appuntamento tramutato in imboscata – pure il declamato del Novecento.
L’edizione vista a Ravenna si distingue da molte altre. In primo luogo, come si è accennato, “Giulio Cesare in Egitto” è anche opera costosa da realizzare: tre atti e undici quadri (da scene di battaglia, a serragli per harem orientali, da palazzi a prigioni, a porti). Ben otto solisti, tutti con almeno un’aria importante. L’allestimento è co-prodotto da sei istituzioni (i teatri di Ferrara, Modena e Ravenna in Italia; l’Opera Nazionale polacca di Poznman, l’Opera di Brema in Germania ed il Festival annuale Händeliano a Halle).
Concepito per essere vista e ascoltata da esperti della musica di Händel non si potevano fare sconti, specialmente sotto il profilo musicale: per questo il lavoro è affidato alla ravennate Accademia Bizantina guidata da Ottavio Dantone che utilizza un organico il più possibile simile all’originale: 28 strumentisti e l’impiego di strumenti d’epoca come la tiorba, la viola da gamba, i violoni e i flauti traversi.
Il suono ha la ruvida dolcezza (solo in apparenza una contraddizione in termini) del teatro barocco, è di grande supporto alle voci, tranne che nelle “sinfonie” che fungono da preludi o intermezzi (grandioso quello della battaglia).
Tra le voci, spiccano Sonia Prina (Cesare) e Maria Grazia Schiavo (Cleopatra)- un po’ troppo adolescente carico di ormoni il Cesare all’ora cinquantaquattrenne e molto seducente la Cleopatra. Ambedue perfette nella chiarezza dell’emissione. José Maria Lo Monaca è una Cornelia che enfatizza gli aspetti drammatici e “larmoyant” del ruolo. Una scoperta il controtenore Paolo Florez nel ruolo di Sesto. “Cattivi”, come richiede la parte, i bassi-baritoni d’agilità Riccardo Novaro (Achilla) e Filippo Mineccia (Tolomeo). Buoni i “confidenti” dei protagonisti – sempre presenti nel teatro barocco – Floriano D’Auria e Andrea Mastoni.
Intrigante l’allestimento scenico. Non siamo nell’Egitto del 48 avanti Cristo o giù di lì, ma in un’imprecisata Africa all’epoca delle conquiste coloniali: Giulio Cesare è un novello Ulisse joycesiano alla ricerca di sé stesso e dell’origine dell’universo. Gli egiziani/africani rappresentano un mondo antico di sapienza ancestrale che si giustappone al moderno, ma transeunte di cui sono portatori i romani.
Cleopatra conquista Cesare non solo con le arti dell’eros (nella prima scena del secondo atto) ma anche in quanto portatrice di un sapere universale e antico da condurre alla conoscenza dell’anima. Funziona bene nella prima parte. Un po’ meno nella seconda quando, nelle scene di battaglia e prigione, si accentua un grand-guignol di sangue e stupri che poco a che a vedere con quanto avviene e nel golfo mistico e nel canto.