Lo chiamavano Progressive Rock, lo suonavano band inglesi, che univano all’amore per il rock quello per la musica classica, per le strutture allargate oltre i confini dei tre-minuti-per-canzone, per il creare prodotti raffinati e ricchi, talvolta un po’ troppo complicati. Emerson, Lake and Palmer si presero la briga di riscrivere per organo, basso e batteria i Quadri da un’esposizione di Mussorgsky, i Jethro Tull mescolarono folk e blues in una sintesi nuova, King Crimson, Yes e Van Der Graaf Generator rivoluzionarono grammatica e sintassi del rock, unendo i vari pezzi in lunghe suites e cominciando a proporle dal vivo a pieno volume e con grande maestria tecnica e compositiva. Ho lasciato appositamente per ultimi i Genesis, che con il loro The Lamb Lies Down on Broadway unirono in un’unica opera rock, distribuita in un doppio album, tutte queste tendenze.
Nato da una storia inventata da Peter Gabriel (il protagonista Rael è una sorta di suo alter ego, lo stesso nome Rael proviene da una storpiatura di Gabriel – forse una specie di arcangelo decaduto), il lavoro è un concept album, cioè le canzoni sono concatenate in un unicum che segue la storia narrata. I Genesis lo eseguirono così, tutto di fila, in un tour di 100 date alla fine del quale Peter Gabriel li abbandonò per intraprendere la sua carriera solista. E così lo abbiamo sentito la sera del 30 aprile al Teatro degli Arcimboldi a Milano, riproposto da una tribute band dei Genesis, proveniente da Montreal, Quebec – Canada, i Musical Box.
Nel vinile originale del doppio album erano contenuti anche il racconto della storia, tutti i testi delle canzoni e la traduzione integrale in italiano di tutto il materiale. Ascoltandolo e leggendo le visionarie liriche di Gabriel, si poteva compiere un viaggio straordinario con il protagonista, violento capo di una gang che fra citazioni bibliche e mitologiche, avventure e trasformazioni, si trova a compiere un complicato percorso di redenzione personale. Dal vivo i Genesis proponevano tutta la storia, corredata da una avveniristica (per i tempi, eravamo nel 1974) triplice proiezione di più di 1000 diapositive e soprattutto dalle successive trasformazioni di Peter Gabriel, corredate dal cambio di diversi costumi.
I Musical Box hanno avuto accesso ai master dell’album e a tutta una serie di materiali fotografici e video d’archivio, e hanno allestito lo stesso identico show, aggiungendo come bis (come i Genesis all’epoca) un paio di brani extra, The Musical Box (appunto) e The Knife. Per chi come me ha apprezzato e amato quel doppio album, arandolo con la puntina nell’ascoltarlo ripetutamente, testi alla mano, è stata una serata formidabile. Ma sicuramente è stata una serata di grande musica, fruibile da chiunque avesse voglia di ascoltare, anche se fruibile a tutt’altro livello, conoscendo di già i pezzi e la storia. Anche perché il concerto è stato preceduto da un documentario che raccontava qualcosa sia della produzione originale, che del lavoro che la band canadese ha fatto per allestire lo spettacolo nella maniera più fedele possibile.
Strumenti vintage, sintetizzatori analogici, chitarre doppio manico, brani imparati filologicamente ed eseguiti tutti a memoria, vocalità del cantante assolutamente Gabrieliana, insomma una esecuzione davvero pregevole, più di due ore di show, arricchito dai cambi di costume e dalla proiezione dello slide-show originale, autorizzato dai Genesis e Peter Gabriel stessi. Leggo in wiki che nel 2005 Phil Collins si è unito a loro in un concerto per alcuni pezzi.
Molti gridano e si stracciano le vesti di fronte alla generazione di questi prodotti-cloni. Noi più moderatamente ci chiediamo: ha senso una operazione del genere o è solo una leva sulla nostalgia per accalappiare chi sostiene che il mondo è finito nel 1974?
Fatta salva la strettoia del gusto personale – sul quale non è possibile discutere, ma che si può modificare, ampliandolo – un concerto come quello dell’altra sera ha almeno due importanti valori. Uno: ha senso che un’orchestra oggi suoni la Quinta di Beethoven? Allo stesso modo si può riprodurre un’opera rock in una versione letterale, che per molti versi ricorda una esecuzione di musica classica, con in più le trovate di costume e di scenografia che in qualche modo l’avvicinano anche al melodramma, che altro non è che una successione delle canzoni dell’epoca, arie e duetti. Due: potrebbe essere un’occasione per chi non ha mai sentito parlare né dei Genesis, né di The Lamb né di Peter Gabriel, di avvicinarsi ad un’opera per certi versi un po’ datata, ma per altri ricca di grande musica, di grandi canzoni, ancora vive pure a 40 anni di distanza.