La tragedia Romeo e Giulietta di Shakespeare ha attratto numerosi musicisti, da Vaccaj, a Bellini, a Berlioz a Bernstein, per non citare che i più noti. Poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale in quella che allora era l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ha ispirato Sergej Prokof’ev, rientrato in Patria dopo un lunghissimo soggiorno all’estero, dove il maestro della danza russa, Djagilev gli aveva commissionato tre balletti: Il Buffone (1921), Passo d’Acciaio (1927) e Il Figliol Prodigo (1929). Romeo Giulietta si riallaccia alla tradizione dei grandi balletti imperiali, spettacolari e con un vasto organico. A Roma è uno spettacolo molto amato dal pubblico: da circa quarant’anni, la produzione con la coreografia di Kenneth McMillan (per il britannico Royal Ballet) si alterna con altre di coreografi italiani (ad esempio, Carla Fracci) e russi (ad esempio Grigorovich).
Il 27 luglio, alle Terme di Caracalla, è stato presentaro un nuovo allestimento con regia e coreografia di Giuliano Peparini: i 4000 posti della grande platea erano tutti esauriti. L’intenzione è che divenga uno spettacolo di repertorio; ne è stata programmata una ripresa ,con svariate repliche, per l’estate 2019.
Prima di trattare dello spettacolo, qualche una notazione sulla partitura. E’ un Prokof’ev maturo che non sperimenta più con suoni (come, ad esempio, ne “L’Angelo di Fuoco” in programma al Teatro dell’Opera il prossimo maggio) ma tenta grandi affreschi nazional-popolari (quali “Guerra e Pace”) e la fusione tra musica e cinema (con Eisenstein nei due film su “Ivan il Terribile” e soprattutto “Alexander Nivskij”). Coglie, però, meglio di altri musicisti (si pensi a Gounod od allo stesso Bellini) il doppio dualismo della tragedia Shakespeare: non solo nel contrasto tra il mondo dei giovani e quello degli adulti, ma anche tra la “storia” del breve incontro tra i due amanti, da un lato, ed il confronto di un dramma di amicizia, tradimenti, lealtà che si svolge solo tra ragazzi di genere maschile appena usciti dall’adolescenza e non ancora nell’età matura (Romeo, Mercuzio, Tebaldo, Paride).
La musica della coppia degli amanti è cromatica, mentre quella dei “ragazzi” (e del mondo esterno) è rigorosamente diatonica – un artifizio, se vogliamo, impiegato magistralmente da Wagner nel “Parsifal” dove il regno di Klingsor è cromatico e quello del Gral diatonico. Inoltre, alla melodia che sottolinea le scene dei due innamorati si giustappone il ritmo che caratterizza quelle sui confronti e sugli scontri tra i Capuleti ed i Montecchi. Il direttore David Levi e l’orchestra meritano le congratulazioni per avere reso così bene la partitura in luogo aperto, dove, in aggiunta parte dei presenti erano distratti dall’eclisse di luna.
Chi va al balletto, si interessa più a danza, scene (Lucia D’Angelo e Cristina Querzola), costumi (Frédéric Olivier) e luci (Michel Désiré). Lo spettacolo è molto differente da quello tradizionale ed elegantissimo di McMillan. Peparini (e la sua squadra) intendono dare una portata universale e atemporale alla tragedia dei due amanti di Verona. Quindi palcoscenico quasi nudo (con il minimo d’attrezzeria richiesta per i vari quadri) ed efficaci proiezioni (Ali Tosa e Thomas Besson) sul grandioso monumento per dare bene il senso di palazzi e piazze. I costumi sono di varie epoche e luoghi; ho difficoltà a comprendere perché Frate Lorenzo ed i suoi confratelli abbiano le vesti di monaci tibetani e le balie di Giulietta debbano essere grottesche.
La coreografia è moderna e piuttosto semplice ma anche ripetitiva. Sembra accentuare più il conflitto generazionale che la distanza tra i due amanti e gli altri. Numerosissimo il cast (composto anche da allievi della scuola di corpo di ballo). La sera della prima hanno eccelso Claudio Cocino (Romeo) e Susanna Salvi (Giulietta).
Il pubblico ha gradito lo spettacolo, con numerosi applausi a scena aperta ed al calar del sipario. A mio avviso, prima della ripresa nel 2019, varrebbe la pena fare diverse calibrature.