Diceva Joni Mitchell in una intervista di diversi anni fa che era capace di passare le ore galleggiando in piscina facendo “il morto”. La cosa le procurava una sensazione di totale benessere mentale, allontanando in quel modo preoccupazioni, pensieri, ansie e stress.
Che l’acqua sia terapeutica non lo scoprono certo i cantanti rock, è così da sempre. Nel drammatico Tre colori – Film blu, la protagonista trova unico conforto e forza per sopravvivere dopo la morte in un incidente stradale di marito e figlia grazie a lunghe nuotate in solitaria in piscina. Anche Naomi Watts fa lo stesso, per trovare forza dopo la devastante morte del marito e delle due figlie, in un altro straziante film, 21 grammi.
Lisa Hannigan non ha problemi di questo livello, ma sa una cosa o due sul dolore. La ricordiamo infatti protagonista dello straordinario ritratto verità sulla fine di un amore, inciso con quello che era il suo compagno di allora, Damien Rice, “O”, una delle più sentite e dolorose messe in musica della “fine di una storia” che la discografia ricordi. Quei giorni sono lontani per tutti e due, ma proprio come ha fatto il suo ex compagno con i dischi successivi a quello, anche lei continua la sua meditazione sulla fragilità dei rapporti affettivi e sulla difficile arte della sopravvivenza. Assente discograficamente da ben cinque anni, e con un trasferimento a Londra dalla natia Dublino che deve aver pesato non poco, la bella cantautrice irlandese torna con il suo terzo lavoro solista intitolato in modo significativo “At Swim”, più o meno “andando a nuotare”.
La metafora del mare, dell’acqua purificatrice e guaritrice, che conserva memorie e dolori e li allontana da noi o che ci permette quantomeno di dialogare con loro, era presente anche in precedenza nei suoi dischi (il suo primo album si intitolava non a caso “Sea Sew”, la cucitrice del mare), ma qui trova uno spazio ancor più significativo.
Basta scorgere i titoli dei brani: Undertow, la risacca; We the Drowned, noi gli annegati (quella sensazione di resa e di auto punizione che ci infliggiamo quando lasciamo che le emozioni prendano il sopravvento) o leggere i testi. Come in Ora, dove la Hannigan canta: “tu sarai la barca e io il mare”; o in Prayer for the Dying (“le onde sono in arrivo a lavare i bordi al loro interno”). In Snow c’è una dichiarazione apertamente autobiografica che immediatamente pensare al suo antico amore: “Mi sto recando dalla città al mare uno guarda ad est l’altro a ovest, non torneremo indietro mai più”, mentre intanto lei “affonda come un tesoro” insieme agli oggetti del suo amore perduto.
Il vertice di questa intensa metafora è toccato nella splendida resa musicale, cantata divinamente a cappella con un intreccio vocale tutto a opera sua, di una poesia di Seamus Heaney, premio Noberl irlandese per la letteratura, Anahorish: “My ‘place of clear water,’ the first hill in the world where springs washed into the shiny grass”. Il posto dell’acqua chiara per il poeta (ed evidentemente anche per la cantante) è un posto del suo cuore in cui descrive il suono del suo nome come un paesaggio di luce e buio, che sono la cifra sottintesa di tutto il disco, luci e ombre.
E’ un disco difficile, intenso, a tratti oscuro, ma allo stesso tempo pieno di delicata speranza e di pacata riflessione in cui penetrare come si penetra nel mare, con rispetto e attenzione.
La Hannigan in questo disco raggiunge il massimo della sua espressività vocale in un gioco di raddoppi vocali, come fantasmi in lontananza, grazie anche al lavoro in fase di produzione di Aaron Dessner (The National) che porta con sé quel bagaglio di elettronica discreta, ma inquietante, che caratterizza il suo gruppo. Dessner va sul sottile più che sull’impatto sonico creando l’impressione di una atmosfera sognante, onirica. Il canto è più soffuso che mai, c’è come un filtro che fa sembrare la voce provenire da una stanza accanto con un effetto riverbero magico, come se qualcuno sussurrasse dall’oltretomba. O dal profondo del mare. Anche il luogo dove il disco è nato, una chiesa dalle parti di New York, in una intensa seduta di registrazioni durate una settimana, sin qualche modo ha lasciato un’eco.
Nella splendida Funeral Suit, è come ascoltare il canto ancestrale delle sirene. La sua voce costruisce una sorta di bolla sonica in cui ci si immerge senza quasi volerlo, attratti appunto da una sirena meravigliosa, la voce come lama tagliente che spezza in due l’aria e tocca melodie raffinatissime e di una intensità preziosa. Sempre presente nel canto, come nelle colleghe Sinéad O’Connor e Dolores O’Riordan, è la memoria del canto popolare irlandese, echi che balzano evidenti fuori dalle melodie
E’ anche un disco fortemente femminile, che all’ascoltatore di sesso maschile sembra quasi di invadere, un territorio intimo e privato come una seduta di psicanalisi.
Difficile scegliere un pezzo su un altro, tanto scorrono legati fra loro. Sicuramente Prayer for the Dying, Snow, Ora, Anahorish e Funeral Suit spiccano per eleganza e intensità in quello che è destinato a essere uno dei dischi dell’anno. Che ci lascia almeno una indicazione: “Nuota nella tua corrente, fluisci in ogni parola che dici”.