Secoli di illuminismo e materialismo ci hanno portati a convincerci che la vita sia a una dimensione sola, quella che ci appare davanti agli occhi e si fa toccare con mano, tutto ciò che è spiegabile razionalmente. Quello che non rientra nei parametri, semplicemente “non è”. Non era così in passato.
Tanto la vita era qualcosa di così indefinibile, sfuggente, piena di domande, che essa “sfondava” le categorie. Qualcuno potrà dire che si trattava di ignoranza, e sicuramente era facile cadere preda di pregiudizi e superstizioni, ma quanto hanno prodotto i secoli dei lumi a parte uno stile di vita più comoda (chessò, la lavatrice e la lavapiatti) ha lasciato un vuoto nichilista e disperante i cui risultati si vedono tutti.
C’era un tempo, ad esempio, nel quale la vita si svolgeva anche sottoterra, luogo deputato da sempre ai morti. Perché la vita era intesa come dimensione non solo di superficie, ma di “scavo” nelle viscere, dove cercare solitudine e vibrazioni che solo l’oscurità e il mistero potevano suscitare. Essere vicini, dentro la terra, portava a concepire morte e vita come un tutt’uno.
Chiunque ha visitato le grette di Osimo, ad esempio, nel cuore delle Marche, ha assistito a qualcosa di stupefacente: un mondo di labirinti scavati nel friabile tufo, frequentati dai tempi degli antichi romani e portate all’attuale splendore dai frati locali, che qui si immergevano per trovare il contatto con un “oltre”, un al di là nell’al di qua. Labirinti che correvano per chilometri, con astuti segnali di riconoscimento noti solo a loro per far perdere chi veniva qua sotto con intenzioni che non fossero quelle del sacro. Fino a una grande cappella circolare, segnata con inquietanti immagini di frati che gli studiosi identificano con quelle di San Francesco, altri con quelle dei cavalieri templari. Quello che accadeva veramente qua sotto si è perso nella notte dei tempi, sta di fatto che a raccontare in musica questo mondo nascosto è stata una band americana invece che qualche musicista di casa nostra: “Quando siamo entrati, abbiamo subito compreso di trovarci di fronte a un altro luogo traboccante di vita, morte, spiritualità, mutamento e misticismo”, raccontano.
Gli Orphan Brigade non sono nuovi a queste situazioni fuori della norma: il loro eccellente disco di esordio, intitolato “Soundtrack to a Ghost Story”, era stato registrato alla Octagon Hall di Franklyn, dimora di tale Andrew Jackson Caldwell, proprietario terriero sudista morto nel 1866, di cui si dice che il fantasma suo e della moglie infestino ancora l’edificio. Con un nome che prende quello di un contingente di soldati sudisti, è chiaro che Nelson Hubbard, Ben Glover e Joshua Britt siano alla ricerca continua degli esperimenti musicali più estremi e destabilizzanti.
Se a un ascolto superficiale e slegato dal contenuto lirico la loro musica può sembrare l’ennesima combinazione di folk, bluegrass,, irish, gospel, in realtà, già dalle particolarissime doti vocali si capisce che siamo davanti a qualcosa di inedito. I riferimenti, semmai ne volessimo cogliere, vanno a band come i Fleet Foxes, gli ultimi Decemberists, i Great Lake Swimmer, tutti protagonisti di una rilettura folk in chiave gotica.
Alcune parti del nuovo disco “Heart of the Cave” sono state registrate nelle grotte di Osimo e l’intero lavoro è dedicato alle suggestioni e alle storie misteriose qua sotto evocate. Ballate sospese tra oscurità e luce, tra antico e moderno, cori che si elevano a evocare spiriti nascosti, una sorta di “memento mori” che scorre sin dall’iniziale Pile of Bones, con quei cori ultraterreni, la ritmica incalzante, il violino e la chitarra acustica in primo piano. La spigliata cavalcata bluegrass di Flying Joe è invece simpaticamente dedicata al santo protettore di Osimo, San Giuseppe da Copertino, di cui si dice che poteva elevarsi in volo in stato di estasi. Un viaggio che tocca la storia di questi posti, come nella bella ballata cantautore di Town of Hundred Churches introdotta dal rintocco di campane lontane, o in Osimo (“Seppelliscimi sotto alle strade di Osimo, torno alla vita”). V.I.T.R.I.O.L., le iniziali di un antico motto degli alchimisti, combina gli strumenti acustici con una melodia ricca di suggestioni, mentre Pain Is Fine è un’altra ballata da cantautore, questa volta solo voce e chitarra, sussurrata e magica nel suo incedere. E se Meet Me in the Shadows è un lungo lamento vocale che sarebbe stato perfetto in qualche film di Dario Argento, il lungo viaggio nelle tenebre termina con la luce ritrovata, la gioiosa e festante The Bells Are Ringing.
“Essere posti di fronte alle proprie paure e vedere le proprie convinzioni messe alla prova sono aspetti integranti di una vita piena” dice Britt. “È sempre stata questa la mia fonte d’ispirazione nell’arte. Il lato in ombra delle cose mi spaventa, ma non è l’ombra in sé a ispirarmi, bensì l’effetto che ha su di me quando la affronto”. Benvenuti nelle grotte di Osimo, benvenuti al mistero della vita che scorre sotto di noi.