Questa sera a Roma, lo storico locale Music Inn, tempio del jazz capitolino e nazionale, di nuovo attivo dallo scorso aprile, festeggia quarant’anni di attività. Il racconto di Federico Scoppio, autore del libro “Music Inn, 1971-2011. Personaggi, racconti, emozioni di ieri e oggi”.
I primi tempi il locale singhiozza. I lavori non finiscono mai, gli impedimenti burocratici si fanno sentire. Però Pepito conosce e viene amato da molti. Quando Enrico Cogno presenta il suo libro Jazz inchiesta Italia, alla serata partecipa Renzo Arbore, già memorabile voce e mente di trasmissioni radiofoniche di successo come Bandiera gialla e Alto gradimento. E negli anni seguenti avrebbe frequentato assiduamente, qualche volta persino con la compagna di allora, Mariangela Melato.
Pepito utilizza le conoscenze e le amicizie per arrivare ai musicisti internazionali. A volte li precetta quando sono sotto contratto per la Rai, altre volte chiede l’aiuto di Alberto Alberti, l’impresario e manager che non rifiuta la richiesta. Nel 1973 la programmazione comincia a essere piuttosto assidua, nel 1974 ingrana la marcia giusta.
A inizio stagione si esibiscono gli italiani Franco Cerri, Enrico Pieranunzi, Tommaso Vittorini. Subito dopo sbarcano gli extraterrestri, prima della pausa estiva.
Il quartetto di Ornette Coleman, demiurgo del sassofono, con James Blood Ulmer alla chitarra, Sirone al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria: la musica di Ornette è panacea, balsamo miracoloso, sorprende perché si presenta in una formazione sottilmente ritoccata, corretta con la grappa.
Quando intona le note dolci di School Work tutto fa presagire tranne che di lì a poco si sarebbe innamorato della fusion e avrebbe intromesso altre chitarre elettriche nel suo anelito blues formando la band Prime Time. A seguire il sestetto di Steve Lacy, con Steve Potts ai sassofoni, Michael Smith al pianoforte, Irene Aebi al violoncello e voce, Kent Carter al contrabbasso e Kenny Taylor alle percussioni, stessa formazione che aveva inciso “Scraps”.
L’inizio della stagione successiva è colmo e folgorante, in ordine di apparizione: Giorgio Gaslini, il Perigeo, Slide Hampton, George Coleman, Charles Tolliver, John Hicks e via fino a Dusko Goykovic, bosniaco doc.
A novembre arriva invece il quartetto di Enrico Rava, con Calvin Hill, Nestor Astarita e Massimo Urbani, a soli 17 anni. Il quartetto registrerà il numero 14 della serie “Jazz a confronto” della Horo. Il 13 è a nome di Urbani, con ritmica formata proprio da Calvin e Nestor. Segue una jazz band dell’allora Cecoslovacchia e il dissacrante quintetto del pianista McCoy Tyner: il desiderio di libertà, la ricerca spasmodica dell’altrove, il sogno dell’autenticità nei sentimenti più intimi, musica selvaggia e sempre inaudita quella dei cinque. Chiude il mese Gato Barbieri.
Nei mesi successivi, a cavallo tra il ’74 e il ’75 passano molti altri musicisti: sbarcano dalla Sardegna i Cadmo di Salis e Lay; Philippe Catherine con J.F. Jenny-Clarke, Jasper Van’t Hot e Aldo Romano; Johnny Griffin con ritmica italiana. Vere e proprie perle a marzo ’75: il quartetto di Elvin Jones e niente meno che Charles Mingus con George Adams, Jack Walrath, Don Pullen e Dannie Richmond.
Il quintetto aveva reso nuovamente libero Mingus, libero di esprimersi al meglio nel bellissimo album “Changes One”. Il Music inn era al passo con i tempi: musica originale e di stretta attualità; a volte combinazioni autentiche; incastri timbrici e umani anche insoliti. E poi tutto ciò che non si legge nei calendari ufficiali. Tante cose. Le feste notturne, le jam session tra i musicisti locali e gli ospiti della serata. Le modalità di lavoro di Picchi e Pepito sono del tutto speciali. Si interessano all’aspetto umano, sviluppano con i musicisti un rapporto personale. Aprono le porte del loro club e della loro casa a chiunque ne abbia bisogno.
Ecco la testimonianza di Maurizio Giammarco. «Per quanto negli anni Settanta non fosse l’unico locale in cui si suonava, il Music Inn era di gran lunga il più autorevole, in quanto Pepito e Picchi avevano rapporti col “grande” mondo del jazz: quello internazionale. Al Music Inn, come prima al leggendario e minuscolo Blue Note (il primo locale di Pepito in uno scantinato di via delle Zoccolette), dove ebbi la fortuna di ascoltare calibri come Phil Woods, Jean Luc Ponty, Mal Waldron a tre, quattro metri di distanza, hanno suonato i più grandi jazzisti e, immagino, a condizioni economiche probabilmente ridicole, proprio per la sincera amicizia che tutti nutrivano per i gestori, che tutti sapevano veri appassionati di jazz (Pepito suonava comunque anche lui), disposti anche a rimetterci soldi pur di far concerti importanti.
Non dobbiamo dimenticare che tra la fine degli anni sessanta e i settanta, a parte Miles Davis e pochi altri, la maggior parte dei jazzisti, specie quelli di derivazione più mainstream, se la passavano piuttosto male: era il periodo di massima diffusione ed espansione del rock e all’epoca l’aria che tirava era che il jazz fosse già arrivato al suo binario morto.
Il Music Inn era di fatto un’oasi nel deserto, controcorrente, dove si poteva ascoltare e suonare una musica che dall’establishment culturale italiano non era minimamente considerata o era considerata tutt’al più un simpatico esoterismo.
Erano veramente tempi da carboneria, rispetto a oggi. Per noi musicisti romani, il Music Inn è stato “il luogo” di aggregazione ufficiale e, a prescindere da chi suonasse, ci ho passato talmente tante di quelle serate che i ricordi, per forza di cose, si accavallano e si confondono: era come una seconda casa. L’aspetto probabilmente più importante era la possibilità di stare a stretto contatto con i jazzisti americani ed europei che all’epoca ci portavano davvero sensazioni di “un altro mondo”, e poterci scambiare due parole o bere un bicchiere insieme, per quanto all’epoca prevalesse ancora una certa soggezione da parte di noi più giovani. Ti sentivi veramente parte di un mondo che all’epoca era davvero esoterico, ma a dimensione umana, e non tramutato in una specie di mini star sistem come poi è diventato, per dire, Umbria Jazz.
In più il locale permetteva anche agli esordienti di suonare, anche se si veniva di regola pagati a incasso, senza sapere molto bene come questo incasso fosse andato…
I concerti memorabili da ricordare sono ovviamente tanti. Sono particolarmente affezionato ad alcune serate che fece Dexter Gordon col suo leggendario ed eccellente quartetto di fine anni Settanta (con Cables, Reid, Gladden: suonavano veramente insieme). Lo stato di ubriachezza nel quale mi trovavo, omologo a quello di Dexter, sortì un tale effetto di telepatia col musicista che dovetti a un certo punto allontanarmi dalla sala per la forza delle vibrazioni extra-sensoriali che stavo provando e che mi avevano procurato una bella tachicardia.
Nel frattempo avevo capito un bel po’ di cose in più riguardo al jazz. Si faceva parte di una comunità, tutti perfettamente consapevoli di condividere una passione speciale per una musica meravigliosa ma ingiustamente emarginata dal mondo accademico e dai media (a parte il jazz entrato nei conservatori, che ne ha sancito il riconoscimento ufficiale, la situazione coi media è in realtà peggiorata).
Ovviamente si discuteva tantissimo di musica e ci si accapigliava, magari dividendosi in fazioni, ma con la consapevolezza di cui sopra. Accapigliarsi era comunque un segno di vitalità. Mi piacerebbe se oggi ci si accapigliasse un po’ di più».
Nel giro di un paio di anni sarebbero ripassati da largo dei Fiorentini, dietro via Giulia, Ornette Coleman (dicembre ’75) e Charles Mingus (marzo ’76) ma anche un’altra serie di nomi da nazionale: Archie Shepp, Roy Haynes, Charles Tolliver, Slide Hampton, Barney Kessel, Charlie Mariano; gli italiani Valdambrini, Piana, Pieranunzi, Scascitelli, Della Grotta, Del Frà, Vittorini, Tommaso, sia Bruno che Giovanni, Tatti, Iacoucci, Munari, Biriaco.
Tutti quelli che popolavano le serate, come spettatori, appassionati, tifosi, amici dei gestori. Anche Marcello Rosa, che proprio al Music Inn nell’ottobre del 1976 si esibì in ottetto con una line up di tromboni spaventosa: Slide Hampton, Dino Piana e Paolo Boccabella e Giancarlo Gazzani tra questi. Racconta Rosa: «Capii subito che l’atmosfera era quella giusta: intanto era il periodo in cui erano viventi e attivi le leggende di quegli anni. Ebbero tutti il loro passaggio. Per i musicisti italiani e appassionati fu incredibile perché poter ascoltare i grandissimi dal vivo non capitava, solo su disco.
Tutti i grandi sono passati dal locale. Ci fu anche la possibilità di suonare con loro, gli incontri furono fondamentali. Non era un vezzo per noi, il linguaggio era quello, era una specie di università, altro che i seminari e le master class di oggi. Per qualcuno è stato importante, anche per quelli che hanno capito che avrebbero dovuto smettere. Oggi quel tipo di atmosfera non c’è più, i giovani non hanno la percezione che avevamo noi di vivere quel linguaggio. Non si possono fare paragoni, l’atmosfera è completamente diversa.
C’è un altro punto fondamentale: il jazz all’epoca era perfettamente identificabile. Si diceva che il jazz non poteva passare di moda perché non era una moda. Oggi il jazz è una moda. Il jazz è sempre stato composto dalla contaminazione, ma ora non c’è quel senso di verità che c’era all’epoca, per cui sono ben contento di essere vecchio, perché ho passato la vita a suonare con Slide Hampton, con Tony Scott che era di casa al Music Inn, con Max Roach. La fortuna del locale e di pochi altri è che per ragioni economiche poteva arrivare il nome, come Johnny Griffin, ma non veniva con la sua formazione; allora i privilegiati erano le ritmiche italiane che potevano accompagnare questi grandi. I pianisti che poterono godere di queste possibilità erano pochi (D’Andrea, Pieranunzi). A me capitò di fare otto tromboni con Kai Winding e cinque con Slide Hampton, ero felicissimo.
Al Music Inn andavo a suonare e un’altra cosa fondamentale dal punto di vista sociale, fu che io collaboravo con la Rai, mi occupavo di trasmissioni jazzistiche. A un certo punto mi chiesero di far riprendere i concerti del Music Inn, e il prodotto era già bello e confezionato.
Una quantità incredibile di riprese, alle quali veniva aggiunta una breve presentazione che facevo io, la serie si chiamava “Jazz concerto”. Molto materiale è andato perduto o è stato buttato nelle teche della Rai: ricordo Archie Shepp, Clarke Terry, Chet Baker che era di casa, Johnny Griffin che era molto amico di Pepito e tutti gli altri».