In occasione del concerto-omaggio ad Andrés Segovia del chitarrista Piero Bonaguri, che si terrà al Meeting di Rimini lunedì 20 agosto 2012, Bonaguri racconta a IlSussidiario.net l’incontro umano e artistico con un Maestro.
Come tutti i chitarristi ero rimasto affascinato da Segovia fin dall’inizio, fin da quando, da ragazzino, avevo iniziato a studiare la chitarra.
Segovia allora era per me un personaggio quasi mitico; ma presto, cominciando a frequentare i corsi di Alirio Diaz, il mio modello divenne Diaz, ed era un modello che cercavo di copiare in molte cose, non solo nel suonare.
Si trattava però di un’imitazione abbastanza esteriore (faccio un esempio che fa capire: mi facevo dare le sue diteggiature e le applicavo ai pezzi con ammirazione, ma lui le cambiava spesso e questo a me seccava, per cui in realtà, pur imitandolo, non seguivo Diaz nel suo modo di lavorare sulla chitarra – per non dire del suo approccio profondo alla musica e alla cultura).
Finché ero molto giovane questa imitazione esteriore poteva servire, ma con il tempo impediva la crescita. Per farla breve, verso i 24 anni mi trovavo in un una crisi di identità artistica: era come se nel mio lavoro, e nella confusione di opinioni già allora forte, io non avessi dei punti fermi.
Mi aiutò Oscar Ghiglia: in una memorabile conversazione personale che ebbi a Gargnano nel 1981 mi disse che io stavo imitando Diaz, ma di Diaz potevo solo copiare il guscio esteriore, perché all’interno di questo guscio c’era lui, Diaz, mentre io non ero lui, io ero io.
Così il problema era venuto fuori con chiarezza, anche se la strada per risolverlo non era ancora completamente chiara. Però ricordo che da quel momento, dopo il corso di Gargnano con Ghiglia, cominciai a studiare facendo una specie di reset delle influenze esterne e mettendomi davanti alla musica cercando di reagire personalmente a quello che la partitura mi suscitava. Mi ricordo che mi misi davanti a una bagatella di Walton dicendo: “non come immagino che la farebbe Diaz”, ma: “cosa dicono a me queste note?”.
Mi si aprì un mondo, fu come liberarsi di una impalcatura, cominciare a vedere usando i miei occhi: superando la tranquillità di affidarsi alla visione di altri, rischiare di reagire personalmente, di lasciarmi colpire personalmente dalla musica che suonavo . Da quel momento non ho mai smesso di lavorare così. Era l’inizio di quella libertà di cui parlava Segovia quando diceva che l’interpretazione è una esplosione di libertà.
Pochi mesi dopo feci un concerto, e dopo il concerto qualcuno che mi aveva già ascoltato in precedenza mi disse che ero cambiato.
Una della cose che intuii era che era interessante ascoltare non solo la musica, ma anche notare come lo strumento rispondeva a come lo sollecitavo, suonando un passaggio con una certa diteggiatura, tocco, posizione: da queste reazioni della chitarra nascevano dei suggerimenti riguardo all’interpretazione. Questo mi fece venire in mente Segovia: pensai che forse quei suoi strani e improvvisi cambi di suono gli venivano anche dall’ascoltare lo strumento, e che forse quello che facevo io era simile a quello che faceva lui.
All’interno di questo lavoro mi capitò di paragonare il lavoro che stavo facendo, mi pare sulla Sarabanda della 996 di Bach, con una famosa registrazione di Segovia. Quel momento fu una rivelazione. Anzitutto era già cambiata la mia posizione nell’ascoltare Segovia: il problema non era se imitare Segovia o non imitarlo, ma, avendo io già iniziato un lavoro personale, paragonare il lavoro personale che stavo facendo io con il lavoro che stava facendo lui.
L’impressione, ascoltando ancora quel disco che avevo da tanti anni, fu di trovarmi di fronte uno che, su quella strada su cui mi ero appena messo, era davanti a me di tantissimo; uno che su questo lavoro di personalizzazione era immensamente più avanti di me – ma la strada era quella, non ebbi dubbi su questo.
Come conseguenza mi venne voglia di fare lezione con Segovia, proprio per essere aiutato in questo lavoro di personalizzazione da uno che lo aveva fatto in modo così grande.
Proprio in quel periodo venni a sapere che Segovia avrebbe tenuto un lungo corso, più di venti giorni, a Ginevra, nell’agosto del 1982. Quella era l’occasione che aspettavo, e feci di tutto per esserci.
Già all’esame di ammissione la mattina sentii l’attenzione con cui Segovia mi ascoltava (portai due studi, forse per far capire che volevo studiare… il dodici di Sor ed il 7 di Villa-Lobos), e la mia prima lezione con Segovia fu sulla Ciaccona di Bach. Nei giorni del corso studiai anche il Preludio, Fuga e Allegro, i dodici studi di Villa-Lobos, la Sonata di Castelnuovo-Tedesco, qualcosa di Scarlatti, e forse altro che ora non ricordo.
Prima del corso avevo timore che Segovia volesse impormi di imitare quelle cose personalissime che faceva lui e che sono, giustamente, inimitabili, ma direi che fin dall’inizio del corso questo problema non ci fu: io cercai di essere me stesso, e vidi che lui era addirittura contento quando scorgeva nel mio modo di suonare qualcosa di personale, di mio (come un rubato unito a un vibrato nella Ciaccona che mi venne proprio dall’interno, come intuizione mia). Mi sentii libero di essere me stesso. Lui correggeva quello che c’era da correggere, diceva quello che doveva dire, dava informazioni, illustrava un metodo, ma rimanendo come al di fuori di quello che era il mio rapporto personale col pezzo, quello che lui chiamava il “fuoco sacro” che il maestro non può dare all’allievo.
E poi era lì, testimonianza vivente di un modo di accostarsi alla musica ed anche, direi, alla vita. E questa testimonianza passava come per osmosi in noi allievi. Il clima del corso cambiò, il nostro suono cambiò, l’influsso su di noi era evidente. Come ci disse una volta: “io vi insegno quello che si fa e quello che non si fa”.
Non so cosa successe poi agli altri allievi dopo il corso, ma per me quella esperienza segnò un punto fermo, era come se quella intuizione che avevo avuto parlando con Ghiglia un anno prima fosse stata confermata. Una frase di Segovia che mi è stata riferita chiarisce quello che mi è successo: “non devi cercare di essere il secondo Segovia, ma il primo te stesso”.
Anche la sicurezza sulle mie possibilità mi venne da quel corso di Ginevra (lui scrisse lì quella famosa frase su di me che da allora metto sul mio curriculum) e soprattutto da lì venne la certezza che c’era una strada, che nella confusione in cui ero riguardo al senso e allo scopo del mio lavoro c’era una strada chiara, c’era una indicazione sicura. Da questo è nato un lavoro che prosegue ancora.
Di questo lavoro noto tre aspetti, che come ripeto continuano anche adesso: da un lato mi venne il desiderio di conoscere di più tutto quello che Segovia aveva scritto, detto, pubblicato, registrato… non potendo vederlo spesso, era il mio modo di continuare a stare in sua compagnia per imparare, per assimilare.
Poi sentii il bisogno di scrivere, per trattenere nella memoria e per dirlo agli altri, quello che avevo imparato nel corso di Ginevra. Un primo scritto è nel mio sito; venne pubblicato dalla rivista “Il Fronimo”.
Poi sentii il bisogno di formulare la mia attività musicale tenendo presente i criteri che avevo imparato nel lavoro con Segovia. Altri scritti miei successivi testimoniano la progressiva maturazione della mia coscienza – molte cose sono nel mio sito web -; è come un processo iniziato trent’anni fa e che ancora va avanti.
Questi criteri costituiscono quella che per me è l’eredità di Segovia, e nello stesso tempo la sua attualità. Per questo li illustrerò utilizzando delle frasi dal Maestro.
Per esempio, l’idea che l’importante, nel fare il chitarrista, è cercare di realizzare qualcosa di musicalmente, artisticamente grande, nobile.
Segovia diceva che i chitarristi devono pensare più alla musica che alla chitarra. Come diceva ancora, gli strumenti sono solo isole, la musica è l’oceano. Ed esortava i chitarristi ad ascoltare soprattutto i musicisti di altri strumenti, e solo successivamente gli altri chitarristi.
E, più importante ancora, diceva che i doni che un chitarrista deve possedere per essere fecondi devono ricevere il calore solare della cultura. Di questo amore di Segovia alla cultura, alle altre arti, ci sono tante testimonianze. E soprattutto, in un’intervista rilasciata a Milano quasi alla fine della sua vita – io ero presente, eravamo al Conservatorio dopo un suo concerto – disse che alla fine di tutto rimane la bontà. Viene i brividi a pensare che è la stessa cosa che disse San Paolo: alla fine quello che resta è la carità.
In un’altra intervista disse: “L’artista è un uomo come gli altri, e non deve mai innamorarsi di se stesso. Perderebbe irrimediabilmente qualcosa… Come gli altri, con in più un dono meraviglioso: e per questo dono deve essere sempre vicino a ogni altro uomo”.
Segovia incarna un amore alla bellezza, una fede nella bellezza e quindi un approccio alla vita e all’arte pieno di umanità, di positività. In questo, fondamentalmente, mi sembra attualissimo. E credo che quello che ha fatto come artista sia legato a questo suo entusiasmo per la bellezza, la nobiltà della vita.
Da qui, ad esempio, la scelta del repertorio, la passione per suonare anche i grandi autori – anche se non hanno scritto per chitarra, purché le trascrizioni facciano venire fuori questa grandezza, e che quindi valorizzino anche lo strumento.
Come parte di questa attenzione mi sono trovato a proseguire quello che Segovia per primo fece in modo sistematico, e cioè chiedere nuovi pezzi per chitarra a compositori non chitarristi. Questa rappresenta una grande possibilità di apertura della chitarra alla grande musica, alla cultura. È la stessa esigenza di apertura culturale, di grandezza, che portava Segovia a suonare le opere dei grandi musicisti del passato che non erano chitarristi, ad avere una considerazione realistica del valore dei chitarristi compositori dell’Ottocento, a guardare al grande repertorio del liuto, vihuela, chitarra antica. Ritengo tutto questo interessante anche oggi.
In questa ricerca sempre più mi accorgo di un altro aspetto dell’attualità di Segovia: lui aveva sempre presente la necessità di comunicare con il pubblico e di portarlo verso cose belle. Suo figlio Carlos Andrès mi disse una volta che Segovia cercava sempre di insegnare. Così, pur avendo io rapporti con musicisti che usano anche linguaggi musicali che forse a Segovia non piacevano, come la dodecafonia o lo strutturalismo (Diaz disse che Segovia era sostanzialmente un impressionista) mi accorgo che anche nell’uso di nuovi linguaggi ci sono compositori che rimangono fedeli a un desiderio di comunicare a tutti e di dire qualcosa di bello e positivo.
Anche di loro si potrebbe dire quello che Segovia disse in una lettera a Madariaga parlando di Castelnuovo-Tedesco: “insobornable servidor de la veridad artistica”. Mentre altri compositori di oggi sentono questa esigenza, o addirittura qualcuno forse la rinnega proprio. Questa musica contemporanea non mi interessa, mentre quella espressiva sì.
Oggi, nella confusione imperante anche sulla composizione, in cui sembra che l’alternativa sia tra la musica di consumo o puramente ludica e l’intellettualismo accademico di tanta musica contemporanea inascoltabile, trovo il tentativo di alcuni compositori di mettere insieme la ricerca e il rapporto con l’ascoltatore assolutamente necessario e amico del tentativo e del lavoro di Segovia.
Anche questo bisogno di “insegnare la musica”, così presente nell’operare di Segovia, oggi è più attuale che mai: proprio perché un certo modo tradizionale di offrire la musica è in crisi – e poi c’è la crisi economica, i ragazzi amano altri tipi di musica, ai concerti di musica classica va poca gente, i dischi si vendono poco, eccetera… l’urgenza educativa di cui parlava il figlio di Segovia è più che mai attuale, e con alcuni amici, sparsi per il mondo e che condividono questa esigenza, stiamo cercando di fare qualcosa in proposito… questo per me è anche frutto di uno studio del lavoro e delle intenzioni artistiche di Segovia.
Ancora: un’attenzione alla natura profonda dello strumento, che se è “solo un’isola” è però dotato di grandissime risorse espressive (Segovia diceva che è lo strumento più bello); quindi non va usato male, svilito con effetti di bassa lega, non valorizzato nella sua incredibile gamma timbrica.
Qui è interessante fare una precisazione sulla tecnica e su come quello che Segovia ha insegnato (ad esempio nel volume sulle scale diatoniche) possa aprire, secondo me, una finestra su un’indicazione di lavoro utilissima che Segovia ci ha lasciato, anche se sotto le righe.
Quella indicazione sullo studio lento e poi veloce, come alternando l’attenzione al singolo suono a quella alla frase. Lui diceva che occorre “intervenire sulla musica, senza fermarla” – e studiando le scale in un certo modo è facilitata la capacità di intervenire sui singoli suoni mantenendo la continuità.
Quello che mi è capitato mi permette di potere rispondere a una classica accusa fatta spesso, oggi, a Segovia, e cioè quella di “metterci troppo del suo” in quello che suonava.
Tutta la mia esperienza, raccontata prima, mi ha fatto capire che la mia esistenza artistica ha senso, per me e per gli altri, proprio nella misura in cui sono in grado di dire una parola mia; e che questa parola nasce proprio dall’ascoltare la musica che si ha davanti, fino a immedesimarsi col pezzo che si suona e a coglierne le ragioni, cioè il punto di interesse per me e potenzialmente anche per gli altri. Nel “vedere” il pezzo, nel “conoscerlo” inevitabilmente ci sono dentro anch’io – e proprio questo è il bello dell’interpretazione.
Tutti gli strumenti, anche filologici, sono utili (se oggi abbiamo più strumenti e conoscenze di quelle che aveva Segovia benissimo, questo fa parte di quell’ “andare avanti dopo di lui” che egli, come mi disse personalmente, si augurava per la chitarra). Ma sono strumenti che servono a un rapporto, a quella unità di soggetto e oggetto di cui è fatta la conoscenza.
Il rispetto è parte dell’amore, ma non lo esaurisce: Segovia aveva un grande rispetto di quello che suonava, ma questo rispetto era parte del suo amore (quell’amore senza il quale, ci disse, un interprete è “perfetto, ma nulla di più”!) e non si dà amore senza che ci sia un soggetto che ama!
Peguy dice: “quando l’allievo non è che un allievo, fosse pure il più grande degli allievi, non genererà mai nulla”. Questo io lo vedevo bene nella mia crisi dei 24 anni. Ma Peguy prosegue dicendo che non è che non si debba avere un maestro, ma da questo maestro occorre essere generati, non essere semplicemente allievi”. Mi sembra che l’attualità di Segovia, nelle mutate condizioni anche culturali di adesso, sia proprio nella sua capacità di generare non dei cloni, ma persone che vivano, anche oggi, della grande idealità artistica e umana di cui viveva lui.