«Locale fumoso, nel cuore della notte. L’orchestrina in vestito nero e camicia bianca improvvisa davanti a trenta persone che conoscono tutti i temi a memoria e che, con un sigaro in bocca, fanno le loro critiche intelligenti… Capito di cosa sto parlando? Benissimo, il Jazz non è questo». Pianista, compositore, arrangiatore, autore di colonne sonore, attore, bassista, fisarmonicista. Paolo Jannacci sembra in grado di cimentarsi con qualunque cosa, tranne che con l’ipocrisia. «Per me la musica è musica e per sua natura è per tutti. Quando è buona la riconosce sia il mercante d’arte sia l’uomo che è costretto a lavorare in miniera. Un po’ come la differenza tra un Van Gogh e una crosta orribile: è la stessa per il commercialista e per l’agricoltore».
Quando nasce il Paolo Jannacci jazzista?
Diciamo che mi sono avvicinato alla musica, non a un genere. Fin da piccolo avevo il desiderio di capire come si potevano creare certe sonorità. Suonare il basso elettrico mi ha influenzato molto, perché ogni strumento ha una sua logica e influenza il modo di pensare. Poi però mi sono concentrato sul pianoforte e ho usato quello per continuare a fare le mie ricerche.
Primi pianisti di riferimento?
All’inizio adoravo Chick Corea: idee, tecnica, timing. Per lui il tempo non è un’opinione. La sua Elektric Band ha segnato un’epoca e la mia formazione. Poi Bill Evans, un musicista più completo, forse con molte più cose da dire. Se lo ascolto anche oggi mi si allarga il cuore.
Al momento oscillo tra due pilastri: Bill Evans ed Herbie Hancock. In mezzo a questi due un’infinità di grande musicisti più bravi di me che continuo ad ascoltare. Corea non lo seguo più, è cambiato…
Passiamo ai pilastri del tuo Trio.
Ho fatto le mie scelte, a colpi di sciabola. Via il contrabbasso, avanti il basso elettrico. Cerco la definizione più che la fusione dei suoni. O meglio, quella viene da sé se il trio suona bene.
Ed ecco quindi Marco Ricci.
Musicista incredibile, l’ideale in questo senso. Suona il basso elettrico con l’eleganza del contrabbassista e con la potenza propria del suo strumento. Sa essere un virtuoso e un tempista alla Anthony Jackson, ma, essendo molto lirico, duetta con il pianoforte con grande classe.
Alla batteria il “re delle spazzole”, Stefano Bagnoli.
Esatto, con lui c’è da festeggiare una collaborazione lunga vent’anni. A differenza di altri batteristi italiani non si concentra sui numeri da circo che si possono fare per far vedere quanto si è bravi (cosa tra l’altro non richiesta perché la batteria non è uno strumento solista). Lui “accompagna”, nel vero senso della parola, e porta il tempo. E il tempo, a differenza di quanto si possa pensare, non è statico, ma evolve, trascina, è come un polmone che si riempie e che si svuota. Non a caso, quando il gruppo “respira” lo fa anche il pubblico. Ecco, in tutto questo Stefano è un maestro, grazie alla sua cultura e alla sua intelligenza.
Il Paolo Jannacci String Quartet però non è un quartetto d’archi, ma un trio a cui hai voluto aggiungere un chitarrista.
Esatto, ho pensato a questo nome perché in un certo senso, suoniamo tutti strumenti a corda, batterista compreso, visto che ha una cordiera sotto il rullante.
Il chitarrista che cercavo per sviluppare il trio, invece, l’ho trovato a Zelig. Suonando tre anni in televisione con Luca Meneghello ho capito che poteva farci prendere delle direzioni diverse. Nelle mani ha un caleidoscopio di sonorità ricchissimo.
State lavorando a un disco con questa formazione?
In realtà sta per uscire un disco del trio, anche se è aperto a tanti ospiti. Si chiamerà “Allegra” ed è l’evoluzione dell’album “Trio” del 2008. La direzione comunque è quella del “trio allargato” ed è la cosa che ho voluto portare al Meeting di Rimini.
Al Meeting ti sei già esibito con tuo padre, Enzo Jannacci. Che ricordi hai di questa esperienza?
Quando ho suonato a Rimini con papà mi ha colpito molto il pubblico. Interessato, esigente e appassionato. Per questo sono molto contento di tornare e lo voglio fare offrendo qualcosa in più con questa formazione.
Il Jazz è l’esternalizzazione della propria soggettività, chi verrà ad ascoltarmi scoprirà qualcosa di me, anche se non conosce tutti i temi a memoria…
(Carlo Melato)