Gli appassionati non saranno d’accordo, ma il metal, come genere musicale, sta attraversando una crisi notevole. Tra tutte le sotto etichette, il cosiddetto “power metal” di derivazione tedesca, che ha unito la vena melodica di act come Iron Maiden agli stilemi della musica classica e alle accelerazioni ritmiche del thrash, è quello che forse se la sta passando peggio. Finiti irrimediabilmente gli anni d’oro di band come Helloween, Gamma Ray, Blind Guardian (gruppi ormai condannati a ripetere se stessi all’infinito nel timore di irritare una fan base parecchio oltranzista) e la mancanza di nuove leve in grado di rinnovarne i fasti, va da sé che il panorama odierno offre ben poco di memorabile.
Ultimamente, si è finito per esaltarsi con qualche interessante ma non imprescindibile colpo di coda: vedi i Freedom Call di “Beyond”, disco che ha riscaldato la solita minestra ma che se non altro è piacevole; o gli stessi Gamma Ray, che con “Empire of the Undead” hanno inanellato qualche episodio di buona fattura. In alternativa, si è finiti per incensare qualche nuova band che nulla aggiunge a quanto già fatto dai nomi più celebri: i danesi Morning Dwell, da questo punto di vista, suonano come una brutta copia degli Helloween di “Keeper of the Seven Keys”.
È la musica con cui sono cresciuto, quella che per prima ho imparato ad amare, ma il verdetto rimane inesorabile: a meno che non si riesca ad abbassare drasticamente la soglia delle proprie aspettative, bisogna per forza passare ad altro. Cosa che, personalmente, ho già fatto da parecchi anni.
Alla fin fine, l’unica cosa che queste band dovrebbero fare, per sopravvivere in un panorama musicale sempre più fossilizzato, sarebbe quella di inventarsi soluzioni nuove. È una strada difficile, però: non tanto perché occorre quel qualcosa in più a livello di songwriting e di visione globale, che molti non hanno, ma anche perché (non me me vogliano i fan del genere!) uscire dal seminato per esplorare territori differenti provoca spesso ire e insulti a non finire da parte del pubblico più oltranzista.
Per fortuna ci sono i Sonata Arctica. Finlandesi, attivi dalla fine degli anni ’90, hanno pubblicato due autentici gioielli di power metal europeo, “Ecliptica” (1999) e “Silence” (2001), che si segnalarono per una qualità di scrittura superiore alla media per a una voce, quella del leader e principale compositore Tony Kakko, tremendamente espressiva anche se mai impeccabile tecnicamente e per dei testi ottimamente scritti e in possesso di una certa qualità letteraria (cosa che, in questo genere, è molto più che una rarità).
Vendettero moltissimo, suscitarono entusiasmi a non finire tra appassionati e addetti ai lavori, e in breve tempo vennero additati come coloro che avrebbero finalmente raccolto lo scettro degli Helloween e dei connazionali Stratovarius, entrambi già all’epoca particolarmente appannati.
Poi, già col terzo lavoro “Winterheart Guild” (2003) decisero che ne avevano avuto abbastanza e cominciarono a rallentare molti brani e a contaminare il loro sound con qualche elemento estraneo.
Ma quel disco, così come anche il successivo, splendido, “Reckoning Night”, erano lavori che si muovevano ancora su coordinate tipicamente metal.
A partire da “Unia” (2006) gli stravolgimenti divennero davvero numerosi: tempi dispari a iosa, ritmiche impazzite, strutture nient’affatto lineari, un sempre più massiccio ricorso ad elementi folk, orchestrali e soprattutto a quel pop rock dal sapore eighties che a tratti li rende simili a degli Europe particolarmente ubriachi.
Da allora sono arrivati altri due dischi (“The Days of Grays” nel 2009, “Stones Grow Her Name” nel 2012) più o meno sulla stessa falsariga, che semmai hanno estremizzato sia l’aspetto cervellotico, sia la componente ruffiana delle loro composizioni.
Un unicum nella storia del metal, dunque: criptici, schizofrenici ma a tratti meravigliosamente immediati, i Sonata Arctica hanno soprattutto il pregio di avere plasmato un sound perfettamente riconoscibile, anche dopo poche note. Di questi tempi, credetemi, non è cosa da poco.
“Pariah’s Child”, uscito il mese scorso, è forse un filino più accessibile dei precedenti, ha recuperato qualche ritmica serrata in più, un certo numero di brani veloci ha fatto parlare (erroneamente) di ritorno alle origini, ma nel complesso siamo sui lidi battuti negli ultimi anni. Inutile dire che, come sempre, si tratta di un ottimo lavoro.
Lo si è capito sopratutto dal fatto che le recensioni negative sono arrivate immediatamente, assieme al ritornello che ormai da dodici anni i fan più ideologici ripetono fino alla nausea: “i primi due album erano un’altra cosa”.
Oggi i Sonata Arctica approdano in Italia per quella che è l’unica data italiana a supporto del nuovo disco. Un rapporto sempre molto intenso, quello col nostro paese, se si conta che nel 2011 avrebbero dovuto registrare qui il loro ultimo DVD ufficiale (registrazione che poi saltò per i soliti problemi burocratici).
Il locale prescelto è il Live Club di Trezzo sull’Adda: rinnovato negli ultimi anni, il posto è bello e capiente, dotato di una splendida resa acustica e può senza dubbio annoverarsi tra le venue migliori che abbiamo nella nostra penisola.
Quando arrivo, il posto è già bello pieno. Non è sold out ma ci siamo vicini, a dimostrazione del fatto che la band nordica gode davvero di ottimi consensi qui da noi.
Ad aprire la serata ci sono i modenesi Trick Or Treat, attivi da quasi una decina d’anni, le cui quotazioni sono andate in crescendo dopo la pubblicazione dell’ultimo, notevole, “Rabbit’s Hill” e dopo che il loro singer Alessandro Conti si è unito in pianta stabile alla band dell’ex Rhapsody Luca Turilli. Hanno mezz’ora a disposizione e la sfruttano più che bene, eseguendo una selezione di brani da tutti e tre i loro lavori, compresa la divertente cover di “Girls Just Wanna Have Fun” di Cindy Lauper, da anni presente nelle loro setlist.
Anni fa, quando uscirono, li definirono la risposta italiana agli Helloween. Col tempo hanno dimostrato di poter fare anche cose diverse, segno che la personalità, dopo tutto, ce l’hanno. Siamo in territori per soli amanti del genere ma comunque si meritano tutto il successo che stanno avendo.
I Sonata Arctica salgono sul palco puntuali alle 22 spaccate (in questo posto di solito non si sfora di un minuto) e danno il via alle danze con “The Wolves Die Young”, opener e singolo apripista del nuovo lavoro, seguita a ruota da “Losing My Insanity”, tratta da “Stones Grow Her Name”.
Come da copione, l’entusiasmo e la partecipazione del pubblico (peraltro variegato come età e composizione, tanti metallari ma non solo) sono già alle stelle e tutti cantano i ritornelli dei pezzi. È una scena che ormai mi è famigliare e che mi conferma in una riflessione che vado maturando da un po’: chi ama i Sonata Arctica non frequenta forum e social network. Non si spiegherebbe perché, altrimenti, questa band riempia i locali ovunque, suonando una musica ben diversa da quella di quegli esordi che, dando retta a quel che circola in rete, tutti dovrebbero rimpiangere.
Dal canto suo, i cinque musicisti suonano alla grande: sezione ritmica in grande spolvero col batterista Tommy Portimo, potente e preciso come un metronomo, sia che debba suonare alla velocità della luce, sia che debba cimentarsi con tempi più ritmati e complessi. Lo coadiuva a dovere il bassista Pasi Kauppinen, che si è unito alla band a partire da questo disco ma che si dimostra già perfettamente integrato.
Il chitarrista Elias Viljanen è ormai al suo quinto anno con la band e non ha più niente da dimostrare mentre Henrik Klingenberg, che come di consueto imbraccia una tastiera a forma di chitarra, come si usava nei scintillanti eighties che tanto ama, è assieme a Tony Kakko l’autentico mattatore dello show.
Da parte sua, il cantante vanta una presenza scenica eccellente e anche se dal vivo non è certo impeccabile e ormai sui brani più vecchi arranca palesemente, l’esperienza e l’aiuto del pubblico fanno sì che riesca a portare a casa la partita abbastanza felicemente.
Suoni al limite della perfezione (volumi forse un pelo troppo alti ma è un dettaglio) per una setlist che mescola sapientemente vecchio e nuovo e che, per quanto mi riguarda, è forse la migliore da che li vedo dal vivo. Contrariamente al passato, la resa dei pezzi nuovi è migliorata (anche perché ultimamente li costruiscono molto di più con l’idea di doverli riprodurre sul palco) così che anche episodi non particolarmente lineari come “Blood” o “X Marks the Spot” fanno la loro splendida figura.
Anche un brano lungo e complesso come “White Pearl… Black Ocean”, raramente eseguito dal vivo, risulta notevolmente migliorato rispetto all’ultima volta che mi era capitato di sentirla. Poi spazio ovviamente ai vecchi classici: le varie “Kingdom for a Heart”, “My Land”, “San Sebastian” e ovviamente “Full Moon” (forse il loro brano più famoso) fanno sfracelli tra le prime file e anche se non vengono accolte poi molto più calorosamente delle altre, è evidente che sono pezzi che hanno fatto la storia di questo gruppo ed è quindi giusto che si prendano ancora la loro bella fetta in sede live.
Bellissima anche “Tallulah”, ballata che, l’avessero scritta i Bon Jovi o i Journey sarebbe diventata multi platino in cinque minuti. E arriva graditissimo, nel finale, il ripescaggio di “Wolf & Raven”, uno di quei pezzi della prima ora che da anni non si sentiva più.
Chiude la solita “Don’t Say a Word”, col suo mid tempo che è l’ideale per saltare e cantare un’ultima volta.
Ancora una volta i Sonata Arctica si confermano una band che dal vivo sa il fatto suo. Alla faccia dei nostalgici e di coloro che non riescono ad andare al di là delle solite melodie ascoltate mille volte, questa è una band che ha trovato una strada vera da percorrere e che, zitta zitta, potrebbe anche contribuire a risuscitare un genere in fase terminale.
Con un ultimo dubbio, tuttavia: che questo mio entusiasmo per loro non sia semplicemente il risultato del fatto che ormai questi cinque finlandesi non suonano più metal da un pezzo. E che abbiano ormai definitivamente conquistato una fetta di pubblico completamente diversa.