Chiunque legga i romanzi di Stephen King sa bene quanto lo scrittore di Bangor, Maine, sia legato alla musica rock. Musicista in erba lui stesso (in passato aveva anche formato una band assieme ad altri illustri colleghi), ha spesso disseminato nella sua opera citazioni di celebri brani di Doors, Springsteen, Ac/Dc, solo per citare le sue più grandi passioni.
Ma King è stato anche colui che, forse più di ogni altro, ha saputo comunicare la faccia più provinciale e insieme oscura dell’America. Non quella delle grandi metropoli o dello stardome hollYwoodiano, bensì quella delle cittadine sperdute nel nulla (quasi sempre quelle del Maine in cui vive e lavora), dove la vita scorre sempre uguale, dove tutti si conoscono e dove sono una patina di cordialità e perbenismo si annidano i più oscuri e inconfessabili segreti.
Era quindi forse già scritto che Stephen King si sarebbe trovato a lavorare assieme a John Mellencamp, uno che l’America l’ha raccontata a suon di rock, sempre con un occhio di riguardo verso i reietti e gli sconfitti.
È un progetto che parte da lontano, agli inizi degli anni ’90, quando il cantautore affitta uno chalet sulle rive del lago Monroe, nell’Indiana, e scopre che era stato teatro di un tragico e misterioso evento, verso la metà degli anni ’30. Si parlava di due fratelli, innamorati della stessa donna e ferocemente in lotta per questo, che una notte persero la vita assieme alla ragazza, in circostanze mai del tutto chiarite.
Mellencamp rimane affascinato dalla storia e la propone a Stephen King, con l’idea di ricavarne una sorta di musical. Lo scrittore ne riconosce immediatamente le grandi potenzialità ma a causa dei numerosi impegni passeranno diversi anni prima che possa metterci mano.
Finalmente, dopo una gestazione lunghissima, “Ghost Brothers of darkland county” può vedere la luce, grazie anche al contributo essenziale di T. Bone Burnett (uno dei più quotati produttori in circolazione, che ha lavorato sugli ultimi dischi di Mellencamp ma che è noto ai più per la splendida colonna sonora di “Brother, where are thou?”)
Non più di musical si tratta, bensì di una sorta di opera rock in cui la vicenda viene narrata attraverso un alternarsi di dialoghi e canzoni. I primi sono affidati ad attori professionisti (tra cui la compagna di Mellencamp, Meg Ryan) mentre le seconde, interamente composte da Mellencamp, sono interpretate da un cast di artisti scelto per l’occasione. Ciascun personaggio dell’intricata vicenda si esprime dunque attraverso la voce dell’attore che lo impersona nelle parti dialogate e del cantante che ne trasmette la voce durante i momenti musicali.
La vicenda è ambientata nello stato del Mississippi e si svolge in due momenti temporali distinti, il 1967 e il 2007. Vi è uno chalet nel quale i due fratelli Jack e Andy Mc Candless (interpretati da due veri fratelli, Dave e Phil Alvin) hanno perso la vita combattendo per l’amore di Jenna (che ha la voce magnifica di Sheryl Crow). Quarant’anni dopo, Joe Mc Candless, il fratello più giovane, che aveva solo dieci anni all’epoca della tragedia, si ritrova nel ruolo di capofamiglia (il suo personaggio è interpretato da Kris Kristofferson), sposato con Monique (Rosanne Cash) e ha due figli, Drake (Ryan Bingham) e Frank (Will Dayley). Con suo sommo orrore, vede che tra i due non corre buon sangue e che la tragedia del passato rischia seriamente di ripetersi nel presente. È così che, nel tentativo di scongiurare il peggio, decide di portare i due ragazzi nello chalet incriminato, con l’intento di metterli a conoscenza del terribile segreto della famiglia. Senza immaginare che i fantasmi di Jack e Andy continuano ad infestare il posto, manovrati da un’entità demoniaca chiamata “The shape” (Elvis Costello) che ha tutto l’interesse a che gli eventi vadano verso la rovina.
Come avrete potuto intuire, non si tratta di nulla di allegro. La cupezza della storia si riflette comprensibilmente sulla musica: Mellencamp ha svolto un lavoro di songwriting sublime (seppure la mano di Burnett sembra presente, eccome), superando di gran lunga le sue ultime prove in studio. Bisogna però dire, a onor del vero, che all’interno di questi 17 pezzi si può ritrovare ben poco del tipico trademark dell’artista americano. C’è moltissimo country, moltissimo blues, un po’ di folk e persino un pizzico di jazz: il tutto va a creare un feeling “back to the roots” che si sposa perfettamente con le tetre atmosfere sixties della vicenda principale.
Raccontare i singoli brani è impresa alquanto ardua e forse anche superflua: molto meglio godersi l’intera storia con i testi alla mano, in modo tale da farsi catturare dal modo in cui Stephen King, da narratore di classe qual è, ha costruito tutta la vicenda.
All’interno di un disco che mantiene una qualità superiore alla media per tutta la sua durata, spiccano comunque alcune perle come l’iniziale “That’s me” (ad opera di un Elvis Costello più mefistofelico che mai), il malinconico e sospeso folk di “How many days” (con un Kris Kristofferson sublime), la mazzata di “Tear this cabin down” (dove Taj Mahal fa davvero il diavolo a quattro), per non parlare di due meravigliose ballate come “Home again” (in cui funzionano benissimo i duetti tra Sheryl Crow e i fratelli Alvin) e “Away from this world” (qui Sheryl Crow è lasciata libera di muoversi a suo piacimento e il risultato è davvero stupefacente).
A chiudere il tutto ci pensa “Truth”, nella quale è lo stesso Mellencamp a fare capolino, dividendo le linee vocali assieme ad altri protagonisti del cast. È un brano molto rock (contrariamente a quasi tutti gli altri), apparentemente allegro e liberatorio, che sembra lasciar trapelare che, dopotutto, il tanto temuto ripetersi degli eventi non ci sarà e che i tasselli rotti si ricomporranno felicemente. Andrà veramente così? Non resta che ascoltare tutta la storia per scoprirlo. Tenendo però presente che a Stephen King gli happy endings non sono mai piaciuti particolarmente…