E’ probabilmente l’unico caso al mondo in cui una recensione di un disco è diventata più famosa del disco recensito. Nel 1970, l’allora giovane capo redattore della sezione recensioni del rock magazine Rolling Stone era Greil Marcus, diventato poi negli anni probabilmente il più brillante scrittore rock (dopo Lester Bangs, naturalmente, che resta fisso al primo posto). Si trovò sulla scrivania il nuovo disco di Bob Dylan, un doppio lp intitolato “Self Portrait”, autoritratto, che in copertina presentava uno sbilenco autoritratto fatto dallo stesso Dylan.
Nonostante si fosse ritirato dai concerti ormai da quattro anni dopo l’incidente motociclistico dell’estate del 1966 e avesse pubblicato due soli dischi in quel lasso di tempo (“John Wesley Harding” e “Nashville Skyline”) Dylan rimaneva il più autorevole e amato artista rock dell’epoca. La sua influenza infatti era stata tale da cambiare il corso stesso della storia del rock al pari dei Beatles se non di più. Qualcuno lo aveva definito “l’arma segreta del 68” per quanto i testi delle sue canzoni avessero influito sulla nascita dei movimenti di protesta, ma lui durante il 68 viveva in campagna, a Woodstock, si era spostato e faceva figli. Un tranquillo signor borghese insomma.
Fu così che dopo aver ascoltato il nuovo disco, Greil Marcus scrisse la sua recensione, che cominciava con una frase che sarebbe rimasta negli annali, simbolo di spregiudicatezza tipico di un’epoca libertaria (chi mai oggi oserebbe stroncare il disco di un mostro sacro del rock? Nessuno): “Cos’è questa m…?”, “what’s this shit?”.
Come ebbe a spiegare all’autore di questo articolo Greil Marcus in persona qualche anno fa, al tempo la frase non produsse particolari scandali: tutti, mi disse, pensavano la stessa cosa di quel disco. Inoltre essa si riferiva unicamente al primo brano del disco: un brano stucchevole per voci femminili e orchestra, All the Tired Horses, in cui Dylan non compariva nemmeno, mi spiegò. Chiesi a Marcus se Dylan avesse mai reagito a quelle parole: “So che una volta disse a qualcuno: Marcus is full of shit”, mi rispose ridendo divertito. Altri tempi.
Quel disco fu effettivamente uno shock: del folksinger arrabbiato che accusava i padroni della guerra non c’era traccia, tanto meno del rocker anfetaminico e visionario che cantava le lodi del signor tamburino o della pietra rotolante. Cosa c’era invece? Un laconico crooner con la voce simile a Topo Gigio che canticchiava canzoni country, quelle più melense, una musica considerata ai tempi buona solo per i rednecks, i reazionari del profondo sud americano per di più resa pesantissima da carichi straboccanti di orchestrazione e cori femminili. Se si pensa che in quello stesso anno erano usciti capolavori rock che celebravano la controcultura nel modo più arrabbiato, pensiamo solo a “Deja Vu” di CSNY, “Back in the Usa” degli MC5, ma anche dischi come “Moondace” di Van Morrison, il primo dei Black Sabbath, il primo di James Taylor o “Cosmo’s Factory” dei CCR, si capirà quanto Dylan fosse lontano dal mondo musicale che gli girava attorno.
Si è detto tutto e il contrario di tutto sul perché Dylan abbia voluto incidere un disco – che tra l’altro conteneva anche molti pezzi di altri autori, come una orripilante versione di The Boxer di Simon & Garfunkel). Di fatto Dylan viveva da anni in un mondo tutto suo, lontano da eventi rock come il festival di Woodstock e da tutto quanto si produceva in quegli anni. Volle fare un disco che ricordava le sue origini musicali, tra folk, pop anni 50 e country music? Volle invece come disse qualcun altro imitare Elvis con quelle orchestrazioni magniloquenti? Voleva solo essere un distinto signore di campagna, felicemente sposato e che sfornava un figlio all’anno? O voleva far arrabbiare apposta i suoi fan per levarseli di torno una volta per tutte, visto che si erano ridotti a spulciare fra i suoi rifiuti in cerca di prove di essersi venduto alla Cia. Chi lo sa davvero. Nel suo libro autobiografico “Chronicles”, Dylan racconta questo periodo con il suo usuale cinismo pieno di humour: ero stufo di quegli hippie che si intrufolavano in casa mia, se avessi avuto un fucile a disposizione avrei volentieri sparato loro. Un disco come Self Portrait certamente avrebbe tenuto gli hippie ben lontani dai negozi di dischi.
Ascoltando oggi la splendida nuova uscita della serie Bootleg Series, il volume 10, che raccoglie versioni alternative di brani di quel disco, o i pezzi già pubblicati privati delle orchestrazioni e di altri arrangiamenti stucchevoli, appare invece l’autentico significato di un disco che – ahimè – occorrerà rivalutare. L’edizione deluxe (quattro cd) contiene anche la versione rimasterizzata del disco originale e il concerto all’isola di Wight dell’anno prima in compagnia di The Band. Se si poteva pensare di essere davanti a una nuova m…, per dirla alla Greil Marcus (il quale ha scritto appositamente interessanti note a questa pubblicazione) ebbene è il caso di dire di no.
Come già capitato innumerevoli volte nella sua carriera post anni 60, Dylan aveva lasciato fuori le incisioni migliori per pubblicare le peggiori. Il materiale infatti che si può ascoltare adesso è di eccellente qualità. Inoltre le super orchestrazioni vennero aggiunte in un secondo tempo dal produttore Bob Johnston di sua iniziativa, quando Dylan aveva già perso interesse per il disco e stava già lavorando al successivo, “New Morning”, pubblicato dopo solo quattro mesi proprio per reazione alle critiche negative che aveva ricevuto “Self Portrait”. In questa nuova edizione sono infatti comprese anche diverse registrazioni di brani poi pubblicati su “New Morning”. In realtà il materiale fu tutto inciso più o meno nelle stesse session, ma in questo secondo caso si trattava di brani originali di Dylan. Anche gli inediti di questo disco sono superiori a quelli poi pubblicati allora.
Ascoltando allora il “nuovo” “Self Portrait” appare chiaro e ben distinto il vero auto ritratto che Dylan aveva in mente: una lussureggiante ed emozionante raccolta dedicata alla musica folk, al country, insomma alle sue radici e alla tradizione americana in generale. Non dimentichiamoci che in quel periodo, poco prima, tra il 67 e il 68 il cantautore nel suo ritiro di Woodstock insieme agli amici di The Band aveva inciso una caterva di brani, i famosi “Basement Tapes” tutti dedicati alla riscoperta del patrimonio popolare americano. Qua, incidendo a Nashville con i migliori musicisti country, il suono è più raffinato ed elegante, ma lo scopo è lo stesso. Le versioni alternate, quelle inedite, quelle senza overdub lasciano trasparire tutto ciò.
Prendiamo ad esempio Alberta #3, pubblicata sul disco originale in due versioni stucchevoli. In questa terza versione è un superbo country blues cantato e suonato benissimo. Dall’epopea dei “Basement Tapes” c’è pure un brano, Minstrel Boy, con tutta la sua carica alcolica e di divertimento trasgressivo. Ci sono brani come Railroad Bill che sembrano anticipare la colonna sonora di “Pat Garrett & Billy the Kid”, c’è la ripresa del classico del folksinger Eric Andersen, Thirsty Boots che è splendida (perché mettere invece sul disco la patetica versione di The Boxer e non questo brano? Misteri dylaniani). C’è House Carpenter, già incisa da giovanissimo, qua interpretata superbamente con un amore incondizionato verso il folk della tradizione. Ci sono i brani senza overdub usciti allora e anche All The Tired Horses senza orchestra diventa piacevole, mentre Wigwam rimane sempre quella enorme sciocchezza che è. E ancora: Little Sadie senza overdub è una robusta ballata folk senza cedimenti, Pretty Saro, inedita fino a oggi, è piena di mestizia e tristezza folk: chi decise di non includerla nel disco?
Insomma, “Self Portrait” poteva candidarsi a essere una delle sue più riuscite operazioni discografiche, al pari di quelle gemme come “Good as I Been to You” e “World Gone Wrong”, anch’essi raccolte di cover della tradizione folk e blues, usciti più di vent’anni dopo. Invece non lo fu, ma questa è la storia.
I pezzi preparati invece per “New Morning” annunciano il ritorno a canzoni a propria firma: se il disco uscito all’epoca peccava di troppa foga, nel voler ribadire “il vecchio Dylan è tornato” scivolando nel rock e nel pop più banalotti, la versione della title track qui presente, con tanto di fiati incalzanti, suggerisce che si poteva fare di meglio, e molto. Le idee non mancavano. Sentite le due versioni alternative di Time Passes Slowly ne siamo certi: la prima dylaniana all’osso, scurissima e intensa; la seconda rock e acida, una scarica di adrenalina. Bellissime.
Went to See the Gypsy è presente in due versioni: una acustica e scarna, sembra quasi uscire da “Blood on the Tracks”, l’altra solo voce e pianoforte elettrico, una versione notturna e da brivido. Sign on the Window ha invece un’orchestra degna di Elvis Presley: è più pop dell’originale ma interpretata con maestria. Cento volte meglio dell’originale è poi If Dogs Run Free: qua è purissimo spoken word acustico, senza quel lavoro inutile al piano di Al Kooper e le voci straboccanti delle coriste. Magnetica e pulsante, ha anche una linea melodica diversa nel ritornello. Ci sono dei brani del tutto scartati, il divertente rock blues di Working on a Guru (con George Harrison alla chitarra, che in quel periodo in cui i Beatles si stavano sciogliendo era spesso ospite a casa di Dylan e anche in studio) e il gospel blues di Bring me a Little Water. Infine compaiono un paio di scarti da “Nashville Skyline”, due versioni leggermente diverse di I Threw it All Away e Country pie che però sono quasi inutili, e una inedita Only a Hobo (l’aveva incisa ai tempi del suo disco di esordio) con Happy Traum, registrata per l’inclusione insieme ad altri brani inediti nella raccolta uscita nel 1971. Il disco si chiude con un demo di When I Paint my Masterpiece: solo voce e piano, una interpretazione di classe purissima.
Resta da spendere qualche parola per il concerto all’Isola di Wight. dell’agosto 1969. Ampiamente bootlegato in passato, è offerto nella versione deluxe in qualità sonora smagliante. Già sul “Self Portrait” originale erano presenti quattro brani da quel concerto, ma non solo non centravano nulla con le ambientazioni sonore del disco, ma erano anche mixati da cani. Quel concerto, il primo dalla fine di maggio del 1966 per Bob Dylan e uno dei quattro in tutto (gli altri furono una apparizione al concerto per la morte di Woody Guthrie nel 1968, una al concerto di capodanno di The Band del 1971 e quella al concerto per il Bangladesh con George Harrison) fino al gennaio del 1974. Per questa esibizione a Wight c’era una attesa incontenibile per la sua apparizione: nelle prime file erano presenti anche tutti e quattro i Beatles. Dylan si presentò in completo bianco da signorotto del sud degli States e il capello corto: niente a che fare con gli hippie che erano lì. Accompagnato da The Band, dimostrò però che la ruggine era ben lontana nonostante il lungo silenzio concertistico. Sebbene la voce usasse le tonalità soft del periodo, Dylan dimostrò anche che con The Band non falliva mai. Loro offersero l’usuale accompagnamento di gran classe che da sempre li contraddiceva, e il risultato fu in alcuni momenti decisamente eccitante. Segnaliamo solo le rese di She Belongs to Me e Highway 61 Revisted, fra le altre. Fece anche tre pezzi da solo: se It Ain’t Me Babe con quei svolazzi vocali era poca cosa, To Ramona resta una delle più belle versioni di sempre di questo pezzo e Mr. Tambourine fu più che accettabile. Eseguendo brani di “Nashville Skyline” e “John Wesley Harding”, poi, due dischi che non aveva promosso con nessuna tournée, rese palese che se ci fosse stato, sarebbe stato un grande tour. Questa edizione del concerto di Wight, già bootlegata in passato, è stata rimasterizzata in maniera sorprendentemente buona: i suoni escono vivi e pulsanti, con i singoli strumenti calibrati in maniera eccellente.
Finito lo show, Bob Dylan rimise la chitarra nella custodia e se ne tornò sulle colline di Woodstock, dove “il tempo passa lentamente”. Stava ancora aspettando un “nuovo mattino”, che sarebbe arrivato solo diversi anni dopo, quando ripresa la strada dei concerti, il suo genio compositivo sarebbe tornato ai suoi più grandi livelli.