Da dove viene la canzone che tutto il mondo associa al giorno natalizio? Quali sono le radici di questo gospel che anche i bambini dell’asilo cantano al posto di Venite adoremus o di Tu scendi dalle stelle?
Scavando negli archivi della canzone popolare americana si scoprono molte cose e ci si imbatte nel nome di Eddie Hawkins, un ventiquattrenne che nella primavera del ’67 era un discreto tastierista del circuito gospel californiano.
Aveva fondato insieme a Betty Watson un gruppo vocale, l’Eddie Hawkins Singers, formato da giovanissimi che durante una sessione all’Ephesian Church of God in Christ di Berkeley aveva registrato sette canzoni. Eddie e compagni avevano un obiettivo: vendere almeno cinquecento copie del loro ‘33 giri e usare i dollari guadagnati per la loro vita quotidiana di giovani musicisti.
Nel gruppo c’erano Eddie e Betty, soprano, e anche Dorothy Coombs Morrison, più i fratelli Walter e Tramaine Hawkins con altri quaranta vocalist. Età media vent’anni.
Nelle sessioni di prova Eddie aveva voluto inserire una canzone, appunto Oh Happy Day, che aveva la classica storia secolare. Alle origini era un inno battesimale, “oh giorno felice, che ha fissato per sempre la mia scelta”: parole settecentesche del prelato britannico Phillip Dodridge e musica firmata da Edward Rimbault.
A dire il vero Eddie aveva voluto prendere questo inno dandogli più ritmo e feeling, ma puntava sul fatto che la canzone non aveva poi una gran diffusione: era uno dei tanti gospel (ne esistevano a migliaia), neppure tra i più noti. E aveva introdotto anche delle variazioni al testo, rendendolo (come d’abitudine) più semplice e diretto, memorizzabile anche per i tanti bambini che riempivano le chiese dei neri.
Oh giorno felice,
Oh giorno felice
Il giorno in cui Gesù
Ha lavato via i miei peccati
Il gospel è un catechismo in pillole (come gli affreschi nelle chiese romaniche e bizantine) e deve avere un andamento caldo e semplice e così lo interpreta Eddie con i suoi compagni, con il coro e i pochi strumenti (organo, basso e batteria; questi ultimi suonati da musicisti “ignoti”: non se ne conosce il nome….) che sostengono la voce di Dorothy Morrison, che se nelle strofe canta sulle ottave basse, nello pseudo-ritornello si eleva sopra tutte le altre voci:
Egli mi insegna
Come guardare, lottare e pregare
Vivremo ogni giorno
Nuovamente pieni di gioia
Ogni giorno
Quello che è successo dopo la registrazione a Berkeley è un piccolo mistero americano. L’ellepì autoprodotto "Let us go into the house of the Lord" esce all’inizio del 1968 e subito un deejay di una radio locale per black people prova a lanciarlo nell’etere.
Risultato: Oh happy day diventa la canzone più richiesta della California, al punto che Eddie viene inseguito dalle case discografiche per realizzarne una versione “vendibile in negozio” come ‘45 giri, cosa che puntualmente accade nell’aprile dello stesso anno, seguito alcuni mesi dopo dal long playing “ufficiale”.
Da quei giorni Oh happy day è stato inciso da oltre cento artisti, finendo nella classifica delle prime venti canzoni americane “più influenti del secolo” e legandosi un po’ ovunque al clima natalizio per via di pubblicità (dalla Coca Cola ai panettoni).
Caso emblematico di gospel che ritrova la sua forza e la sua vita nei grandi circuiti della comunicazione contemporanea, Oh happy day è comunque una grandissima canzone di rinascita: i miei peccati sono lavati via da lui e per questo, finalmente, vivo un giorno felice.
Gente nera, che non avendo nulla, poggiava la felicità sull’unica cosa salda della vita. Perché di felicità in questa canzone si parla.