Il 26 aprile, “prima” mondiale di “Quartett” di Luca Francesconi, su libretto proprio tratto da un dramma (di grande successo) di Heiner Müller, basato a sua volta su un capolavoro della letteratura libertina, “Les Liasons Dangereuses” di Chaderlos de Laclos.
A Chaderlos si sono ispirati, tra gli altri, Vadim, Frears, Forman e Kumble per trasposizioni cinematografiche. La riduzione drammatica di Müller è l’unica versione scenica (risale al 1982) che abbia lasciato un segno. Non ne hanno lasciato alcuno due opere liriche recenti, una dell’americano Conrad Susa e una del belga Piet Swets. Quindi, abbiamo il testo – si dice – più amato da Maria Antonietta, filtrato attraverso Müller e filtrato di nuovo tramite Francesconi. È una “prima” specialmente importante perché tra qualche settimana l’opera (un atto unico di un’ora e venti minuti) sarà a Vienna e subito dopo a Londra e ad Amsterdam; è probabile che la prossima stagione approdi negli Stati Uniti e in Germania.
Il Teatro alla Scala ha preparato un programma di sala specialmente ricco di saggi ed informazioni. Non è intenzione del vostro “chroniqueur” sostituirsi al programma e ai suoi autori, ma aggiungere alcune dimensioni nuove che possono portare a una correzione di tiro.
Partiamo – com’è d’uopo – da “Les Liasons Dangereuses”. Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos. Scrittore, nato da una famiglia di estrazione borghese, suo padre era un ufficiale governativo di servizio e appartenente alla cosidetta “nobiltà di toga”, non ereditaria, ma meritata sul campo entrò nella École royale d’artillerie de La Fère, antesignana della École polytechnique. Il suo romanzo epistolare è un classico conosciuto per la sua esplorazione della seduzione, vendetta e malizia umana, nonostante l’autore lo avesse concepito soprattutto per far riflettere, tramite i personaggi principali, sul biasimevole stato dell’istruzione femminile e sulle sue conseguenze sulla morale nella Francia del Settecento.
È inoltre un racconto moralistico sulla corruzione e lo squallore della nobiltà della Francia dei Borbone, scritto da un fervente ufficiale di Napoleone (che dei Borboni aveva una pessima opinione). Non per nulla la trasposizione cinematografica più efficace è a mio avviso quella, in un impeccabile bianco e nero, di Roger Vadim che portava la vicenda nella Francia degli Anni Cinquanta e aveva un finale chiaramente moralistico. Choderlos era credente? Difficile dirlo. Quando morì, di dissenteria e malaria, a Taranto (dove comandava l’esercito napoleonico) rifiutò i sacramenti. È verosimile che appartenesse a quella “massoneria cattolica” perfettamente descritta da Lidia Bramani in Mozart Massone e Rivoluzionario (Bruno Mondadori, 2006) che si estendeva dalla Francia alla Baviera, all’Austria ed ad alcuni cantoni svizzeri e che coniugava illuminismo con una visione anti-clericale. Ciò spiegherebbe l’afflato moralistico del romanzo con il rifiuto dei sacramenti (considerati un mero orpello).
Non era certo credente Heiner Müller (Eppendorf, 9 gennaio 1929 – Berlino, 30 dicembre 1995), marxista della Germania orientale (nonostante questo ebbe difficoltà con il regime) e considerato uno dei drammaturghi del Novecento che più hanno inciso sul teatro di prosa. Il suo “Quartett” è stato più volte messo in scena in Italia. L’azione è ridotta a due personaggi che si mascherano in vari ruoli. Si volge in un luogo che è, al tempo stesso, un salotto del Settecento e un bunker dopo un’eventuale terza guerra mondiale. È, a suo modo, moralista: il nichilismo assoluto e la frenesia sessuale portano alla distruzione di tutti e di tutto in uno spettacolo il cui testo è di appena una ventina di pagine, ma richiede una messa in scena di circa due ore.
Luca Francesconi (Milano, 1956) è uno dei compositori contemporanei italiani più noti e versatili. Ha scritto, in inglese, il libretto di “Quartett” integrando, in modo intelligente, la drammaturgia di Müller. Siamo però alle prese con un’opera non con dramma didascalico con inevitabili reminiscenze brechtiana. Ai due personaggi, la marchesa di Merteuil (soprano) e il visconte di Valmont (baritono) si chiede virtuosismo e un ampio spettro di stili, tecniche, registri, inflessioni e timbri. Il coro, amplificazione del canto e delle azioni dei personaggi stessi. Le due orchestre svolgono compiti drammaturgici tendenzialmente diversi: se la prima registra le pulsioni private dei protagonisti nei loro spazi claustrofobici, la seconda è una specie di riflesso della sfera sociale e collettiva, quasi un’eco lontana del mondo, sia come forza naturale e senza tempo, sia come rumore di una massa minacciosa e in avvicinamento.
Alla cassa di risonanza di quanto accade in scena – e alla sua percezione – contribuisce infine, oltre al coro e alle due orchestre, l’elaborazione elettronica di suoni e spazi, mirata a coinvolgere il pubblico in un’esperienza multidimensionale. L’aspetto più interessante è che Francesconi (al pari di Ligeti, Xenakis e Sani) si pone a metà strada tra le due scuole che più hanno influenzato la seconda metà del Novecento: la dodecafonia seriale di Darmstad e l’elettroacustica dell’Ircam, respingendo le tentazioni all’improvvisazione alla Cage.
Il suo filtro di Müller ci riporta in qualche modo a Choderlos? A questa domanda possono rispondere i singoli spettatori e ascoltatori. Per alcuni, l’opera è uno sconcertante e sadico gioco teatrale, capace di indagare fino in fondo, con crudo cinismo filosofico, l’anatomia delle passioni umane. Per altri, saranno invece gli accordi del tragico finale a restituire il moralismo di Choderlos. Come nel film di Vadim in cui il gioco crudele veniva affidato a Gérard Philippe e Jeanne Moreau.