Quindi esce l’ennesimo lavoro di Jimi Hendrix. “Ma è morto 40 anni fa!”, mi dice l’amico musicista cui lo comunico. Sì, ma Jimi è uno di quegli artisti di cui sono stati realizzati molti più dischi postumi di quelli usciti in vita. Stando alle notizie, ai quattro album (tre con l’Experience e uno con Band of Gypsys) si affiancano almeno il triplo di uscite post-mortem, oltre ad una serie sterminata di bootleg, live, rarities e chi più ne ha più ne metta.
Dunque di fronte a People, Hell & Angels occorre farsi subito la domanda fondamentale: cosa aggiunge questo lavoro allo sfolgorante e rapidissimo passaggio di James Marshall Hendrix sul nostro pianeta? Cercheremo brevemente di scoprirlo.
Diversi dei dodici brani presenti sul disco sono registrati con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso, gli stessi partner dell’ultima fatica discografica di Hendrix, il già citato Band of Gypsys. È per esempio il caso del potente pezzo di apertura Earth blues. La sezione ritmica nera aggiunge palate di funky allo stile di Hendrix. Altro bluesaccio (già ascoltato, ma qui in una versione con Stephen Stills al basso) è Somewhere. Assolo davvero ragguardevole, ma su tutto mi rimane incollata una frase del testo, “Please give us a helping hand”. Brividi.
Si procede con Hear my train a comin’ e poi una versione davvero particolare del pezzo di Elmore James Bleeding Heart. Il brano sfuma intorno ai quattro minuti lasciando presagire una coda ben più lunga. Nel successivo Let me move you troviamo puro rhythm’n’blues, corredato di organo Hammond, ma soprattutto dal sassofono di Lonnie Youngblood, con cui Jimi aveva suonato come turnista nel 1966 e che incontra di nuovo tre anni dopo. Izabella è un funky serrato dove oltre alla presenza di Miles e Cox, c’è un secondo chitarrista, Larry Lee. Segno che Jimi stava sperimentando nuove strade oltre alla dimensione del trio con cui si era sempre esibito. Con questo quartetto è eseguito anche il brano seguente, Easy Blues. Su Crash Landing c’è poi un aneddoto particolare: è un brano inserito in un postumo del 1975, cui diede anche il titolo, in cui però erano state sovraincise delle parti da altri musicisti. Qui è proposto nella versione originale, senza aggiunte. In Inside Out Jimi sovraincide tutte le parti di basso e chitarra, accompagnato solo da Mitch Mitchell alla batteria. Chiudono il lavoro l’intensa Hey Gypsy Boy, il classico rhythm’n’blues Mojo man, anch’esso grondante funky, e la finale Villanova Junction Blues.
Innovazione e sperimentazione sono fra le parole più ricorrenti nella scheda di presentazione di questo disco. Occorrerebbe tuttavia una analisi più dettagliata e profonda per capire bene di quali tendenze Jimi era precursore, e quali invece lo interessavano così tanto da volerle a sua volta proporre e sperimentare. Siamo sempre al grande dilemma dell’uovo e della gallina. Il ritmo funky, per esempio, era nell’aria e stava contaminando gli altri generi con velocità impressionante. Ma è funky già Rubber Soul dei Beatles nel 1965. E si potrebbe andare avanti, scavando nel rhythm’n’blues, e forse ancora prima. Insomma, abbiamo fra le mani un diamante grezzo, un crogiuolo di stili, forme, brani con voce o solo strumentali che costituivano il tavolo di lavoro di Hendrix nell’ultimo periodo di vita. Ma lui non lo sapeva.
Come un viso di bambino, in cui si intravvedono i tratti che costituiranno la bellezza adulta, ma non ancora espressi compiutamente, così in questi brani si intuiscono le strade che la musica di Jimi Hendrix avrebbe potuto prendere se ne avesse avuto il tempo.
Ecco, la risposta alla prima e più importante domanda: è questa bellezza acerba che questo lavoro aggiunge al corpus di registrazioni hendrixiane. È come vedere l’affascinante primo tempo di un film di cui bisogna giocoforza immaginarsi il finale.