La canzone d’amore per forza di cose è univoca. C’è uno – o una, dipende dal sesso del cantante – che si rivolge a una lei o a un lui. L’altro nella maggior parte dei casi non ha voce in capitolo. Deve subire tutto quello che l’amante o ex amante ha da dire senza possibilità di repliche. Fino a quando la canzone è una tenera dedica d’amore, va anche bene: meno, quando il lui o la lei scarica invettive come se piovesse. Meglio allora definirle, come fece Leonard Cohen, canzoni di odio piuttosto che d’amore. Ma il medium è fatto così, ed è anche giusto che sia così. Bob Dylan in questo come in tutto il resto è stato maestro. Quando ha dovuto vomitare la sua rabbia non si è mai tirato indietro, massacrando la sua povera lei di turno: Sei un’idiota bambina, è una meraviglia che tu sappia ancora respirare, cantava in Idiot Wind tanto per capirci. Nel nuovo straordinario disco, “Tempest”, c’è però una canzone d’amore che non è proprio di odio e neanche d’amore. E’ bizzarra, è quasi un dialogo, il testo salta subito su come qualcosa di diverso dall’usuale sul tema. E’ la bellissima Long and Wasted Years, una delle massime performance vocali del nostro di sempre.
Perché diversa? A un primo ascolto è il solito tema di un lui che si lamenta di lei, una storia agli sgoccioli. Sì, è così, ma la differenza che i due stanno ancora insieme. Lo si capisce quando lui dice di sentirla parlare nel sonno. Due che si sono separati ovviamente non dormono più insieme. Invece qui abbiano una coppia dove l’amore è finito, che sta insieme per qualche ragione, come fanno tante coppie, specie quelle che hanno avuto una lunga relazione, fatta appunto di “long and wasted years”, lunghi anni sprecati. Sembra di trovarsi dentro un racconto di Raymond Carver, quegli straordinari racconti minimali del geniale autore americano tutti dedicati alla vita di coppia. ai suoi fallimenti e alle sue speranze. In questo soliloquio del protagonista lo possiamo vedere sdraiato sul letto, una sigaretta in una mano e un bicchiere di whiskey nell’altra, con lei accanto, ma girata dall’altra parte. Lui mormora il suo disappunto, lei ascolta e a volte non ascolta, negli occhi qualche lacrima per una storia che non ha mantenuto le sue promesse.
Era tantissimo tempo fa, dice Dylan, quando ci volevamo bene e i nostri cuori erano veri. Perché quando si ama si è veri, onesti e sinceri: quando non ci si ama più si diventa falsi e ingannatori. Un giorno, per un breve momento, sono stato tuo. Perché l’amore dura poco, pochissimo, un giorno soltanto. Poi diventa abitudine e sopportazione, come questa coppia di cui canta Dylan. Ma è la stessa cosa per tutti e due, dice Dylan, rendendo la realtà ancora più sconsolata. Il protagonista ha perso anche la sua famiglia di provenienza: non li vede da almeno vent’anni, dice, potrebbero essere tutti morti, non è gente facile da capire. La solitudine, come unica condizione di vita: fallisce l’amore, fallisce la famiglia.
“Shake it up baby, twist and shout, you know what it’s all about”: ecco cosa conta veramente, datti una mossa baby, twist and shout, e stai attenta, il sole ti può bruciare il cervello. No, neanche questo basta, il cantante lo sa benissimo, ha buttato là una provocazione anche un po’ cattiva, facendole venire in mente quando erano giovani, quando ballavano a tempo di rock’n’roll. E’ necessario essere seri con se stessi, per capire se stessi. Ecco perché adesso spunta in questo monologo/confessione un nemico che il protagonista ha ucciso: probabilmente è lui stesso, il suo io più autentico eliminato lungo il percorso della vita dall’abitudine e della superficialità. Quell’io che un giorno lo aveva reso capace di amare, ucciso da lui stesso. Non facciamo tutti così, in fondo? Adesso però deve indossare occhiali da sole tutto il tempo: ci sono segreti nei miei occhi che non posso rivelare. La vita ha chiesto un prezzo alto, troppo alto. Ed è qui, nella solitudine e nella sconfitta totali, che ha un moto di speranza, di possibile recupero: torna indietro bambina, se ti ho fatto del male ti chiedo scusa. Ma il tono della voce, quando recita questi versi è incredibilmente ironico, cinico. In realtà, sembrerebbe che la stia prendendo in giro. Torna indietro? Ma vattene a quel paese.
Invece no, era serio: non devi andartene, le dice, sono venuto da te perché sei mia amica. Ecco: l’amico, l’amica, contano e durano più dell’amante. Gli amori passano, le amicizie restano. E’ davvero così? Ha un attimo di pentimento: quando ho voltato la schiena, l’intero mondo dietro di me ha preso fuoco. Senza di lei, senza un altro, un uomo non sta in piedi da solo: è un altro che ci costituisce, nel bene e nel male. Alla fine non resta che una cosa sola, come nei migliori racconti di Raymond Carver: è da tanto tempo che non percorriamo quel corridoio, dice. Riproviamo. Abbiamo pianto insieme in un freddo e gelido mattino, abbiamo pianto perché le nostre anime si sono spezzate, abbiamo pianto così tanto, per tutti questi lunghi anni sprecati. Alla fine resta una possibilità di recuperare un cammino fatto insieme: perché solo chi ha pianto insieme, può continuare a vivere insieme. Nonostante questi lunghi anni sprecati. Bob Dylan ha superato la canzone dell’odio e anche quella dell’amore. Ha intravisto quella possibilità che rende l’amore possibile.