E’ una splendida mattina, quella del 1 febbraio 2003 sui cieli del Texas, e lo Space Shuttle Columbia sta tornando a casa col suo equipaggio, dopo un viaggio durato quindici giorni. Laurel Clark ha appena mandato una mail al marito e al figlioletto di otto anni: “non sono mai stata così fortunata – scrive – ho visto l’aurora australe e, ad ogni orbita, una porzione diversa della terra; dovunque la si guardi è magnifica ed anche le stelle hanno una luce speciale”.
Quella mattina Laurel ha messo nel computer dell’astronave un disco dei Runrig, conosciuti durante un soggiorno in Scozia con la marina militare americana e da allora mai più abbandonati. Ogni astronauta ha portato con sé la sua musica ed oggi tocca a Laurel scegliere il brano con cui svegliare i compagni di viaggio. E’ felice ed ha promesso che quando tornerà a casa manderà ai membri del gruppo una sua foto a bordo dello Shuttle con in mano il loro nuovo disco.
Ma il sole di quel giorno è destinato ad oscurarsi presto all’orizzonte. L’astronave non resiste all’impatto con l’atmosfera e dell’equipaggio a bordo non resterà più traccia. I detriti dello Shuttle si sparpagliano lungo un’area di duemila miglia, infiniti frammenti irriconoscibili, salvo un oggetto, che verrà recuperato intatto una settimana dopo. E’ l’ultimo disco dei Runrig – The Stamping Ground – che Laurel aveva portato con sé. La canzone, ascoltata quel mattino, è Running To The Light: “Solo coloro che scorgono la grandezza nelle piccole cose sono degni di ciò che è semplice / essi sono felici e svaniranno correndo verso la luce”.
Nel nuovo disco dei Runrig – The Story – uscito il 29 gennaio e che i musicisti hanno annunciato come l’ultimo album che la band inciderà in studio, il brano finale, Somewhere, è dedicato proprio a Laurel. Un brano epico, che, sul finale in dissolvenza, porta inciso un breve dialogo radio dell’astronauta con la base terra. Pare davvero l’epitaffio posto a sigillo della storia più che quarantennale di questa straordinaria band, che ha saputo coniugare nel rock la musica tradizionale scozzese. “Siamo nati in qualche posto, da qualche parte abbiamo pianto – recitano i versi della canzone – negli spazi del tempo, in quest’orbita di meraviglia e di stupore. Viviamo, moriamo, e la luna e le stelle continueranno a brillare, quando il nostro tempo sarà andato”.
Ma cosa è stata e continua ad essere la musica dei Runrig? Già, perché i musicisti hanno annunciato che l’uscita del disco non coinciderà con la fine dell’attività del gruppo, che, appena partito per un tour europeo, non sembra aver intenzione di abbandonare la vita on the road. Alla domanda su come descrivere la loro musica a chi ancora non li conosce, Calum Macdonald prova a rispondere così: “si tratta di canzoni contemporanee, con una struttura rock, ma fortemente influenzate dalla musica celtica e dalla cultura gaelica”. Tutto qui? Certamente no. Perché è difficile restringere in parole le emozioni che questa band ha saputo trasmettere anche al di fuori dei confini delle highlands, trasferire in immagini le atmosfere e le struggenti melodie, descrivere le improvvise accelerazioni rock, che appaiono come gli assalti di un esercito, intento a difendere strenuamente la propria nazione. Così come arduo appare il tentativo di tradurre quell’originale miscela di gaelico ed inglese, usata in quasi tutte le canzoni; lingue sapientemente armonizzate perché nate da una terra che le ha fatte crescere insieme, anche quando si sono fatte la guerra tra di loro.
E, alla fine, tramutare tutto questo in un racconto, che sappia narrare di una storia lunga e affascinante, una vicenda fatta di amicizia e fedeltà, un gruppo di musicisti simile a una famiglia, fieramente aggrappata ad un popolo ed alla propria terra. Alla domanda su come descrivere l’influenza del paesaggio delle highlands nel processo creativo delle loro canzoni, Calum parla di qualcosa che non origina solo dalla bellezza e dai colori, ma soprattutto dalla dimensione dei territori: una misura del paesaggio che richiama al senso di finitezza della vita dell’uomo. North Uist, estremo nord occidentale dell’arcipelago delle Ebridi, ed in particolare Clachan Sands, lembo di spiagge bianche, circondate da nebbia e montagne ed adagiate su un freddo mare color azzurro cristallino, è il luogo che egli descrive come il suo preferito, aiutandoci a capire ciò che non può essere spiegato a parole e che tutta la musica dei Runrig riesce forse meglio a definire. Qualcosa d’ineffabile, che ha a che fare con l’orgoglio dell’appartenenza ad una cultura e ad un popolo povero ma fiero, costretto in passato anche ad una massiccia emigrazione, per lo più in Canada ed Australia, a causa delle politiche economiche inglesi che sgretolarono la vita di intere famiglie, abituate a coltivare la propria terra ed a vivere legate tra loro da stretti patti di sangue tra clan.
La storia dei Runrig, nome intraducibile che indica un’antica tecnica di coltivazione della terra, nasce lontano. Calum Macdonald e Donnie Munro sono compagni di scuola a Skye, isola di fronte alla costa occidentale scozzese, trecentocinquanta chilometri a nord di Edinburgo; un luogo ricco solo del mare e di quel poco di terra da cui rapire il sapore torbato che rende il whisky di queste parti unico ed inimitabile. Sono all’inizio, ma non lo sanno ancora, perchè la band la formeranno, nel 1973, i fratelli Rory e Calum Macdonald, da lì in poi autori della maggior parte delle canzoni. Donnie li raggiungerà solo l’anno dopo ed a loro si affiancheranno Blair Douglas e Robert Macdonald. Con l’arrivo del virtuoso chitarrista Malcolm Jones, nel 1978, il gruppo è pronto per il debutto discografico, Play Gaelic, che paga ancora un forte tributo alla musica tradizionale. The Highland Connection, uscito l’anno successivo, comincia a tratteggiare una strada. Il linguaggio sonoro è quello di un rock deciso ed essenziale, inframezzato da alcuni brani caratterizzati da dolci melodie, colorite dalla voce straordinaria di Munro. Qua e là anche brani strumentali, che lasciano intravedere le potenzialità tecniche di Jones, che, oltre alla chitarra, suona una forma elettrificata delle great highland bigpipes, le famose cornamuse scozzesi. Si delineano così i tratti distintivi della proposta musicale del gruppo, che lo renderanno alla lunga vincente: ritmi musicali ed armonie vocali tipiche della tradizione, a braccetto con l’elettricità, il desiderio di novità e l’irruenza che caratterizzano la musica rock. Una canzone del disco in particolare, Loch Lomond,diventerà negli anni un cavallo di battaglia; suonato spesso come brano conclusivo dei concerti ed eseguito in un crescendo d’intensità, parte da un inizio lento e melodico, passa attraverso un intermezzo ritmato in gaelico, per giungere sino ad un finale a ritmo di rock incandescente. Il testo del brano narra della vicenda di un condannato a morte e del ritorno alla propria terra, che è lungo la “high road” o la “low road”, a seconda di chi vive o deve morire, nel triste destino di coloro che si amano ma non potranno più gioire insieme, sulle colline delle highlands e lungo le rive del lago di Lomond.
Col passare del tempo i Runrig conoscono fama e successo e gli anni ’80 e ’90 li vedono trionfare non solo in terra d’Albione, ma in Europa, America e Nuova Zelanda. Alba – altro nome per indicare la Scozia – incisa nell’album The Cutter And The Clan, è un inno travolgente, cantato sistematicamente in coro dal pubblico ai concerti e An Ubhal As Airde – The Highest Apple, nella traduzione inglese – è la prima canzone in gaelico ad entrare nella Top 20 inglese. Il suono si consolida e le armonie vocali di Donnie e Rory, la cornamusa e le chitarre di Malcolm, il drumming energico di Iain unito alle percussioni di Calum, creano isole di buona energia dove approdano volentieri anche cuori che non sono riempiti solo da sangue caledone.
Le liriche sono sempre più legate a tradizione, passione sociale e desiderio d’indipendenza della nazione scozzese, al punto che Donnie Munro, che è anche rettore dell’università di Edimburgo, e Peter Wishart – ex Big Country entrato nel gruppo a fine anni ’80 – arriveranno a lasciare la band a cavallo del 2000, per tentare la carriera politica. Eppure la loro musica è ormai anche altro. Pesca più in fondo, nelle radici del cuore, nelle ferite dell’esistenza e nella speranza scritta nelle brevi gioie; in una parola, la loro canzone è una forma possente e straordinaria di canzone d’amore. “Cosa ispira la vostra scrittura?”, viene chiesto loro. E’ ancora Calum Macdonald a rispondere: “ogni cosa che ti circonda e che ti trovi a vivere, giorno per giorno. Ogni cosa che vivi e prendi sul serio, il viaggio della tua stessa vita, la cultura gaelica, il paesaggio, la famiglia, un senso di spiritualità”. E Iain Bayne, lo straordinario batterista della band, un uomo capace di trasformare il suono del proprio strumento nell’urlo di battaglia di un esercito, precisa meglio anche la questione dell’impegno politico: “la consapevolezza nasce a livello individuale e se la musica è in grado di comunicare con l’individuo al livello più profondo, è da lì che può nascere realmente un cambiamento positivo”.
Il 1997 vede il cambio della guardia tra Donnie Munro e Bruce Guthro, canadese originario di Cape Breton, una delle terre che accolsero gli emigranti scozzesi. Suona la chitarra ed ha una bella voce. Non conosce il gaelico, come Donnie, ma ne raccoglie l’eredità, appassionandosi al cammino di quel gruppo di amici che continuano a chiamarsi Runrig. La voce gaelica, d’ora in poi, sarà solo quella, splendida, di Rory, ma il viaggio proseguirà e la nave continuerà ad imbarcarsi verso nuovi approdi per altri vent’anni, sino ai giorni nostri, sino a The Story, il quattordicesimo ed ultimo album della band.
Cosa rappresenti questo disco, nelle nostre mani da pochi giorni, ce lo spiega in poche parole il chitarrista Malcolm Jones, nella band dall’età di diciott’anni: “le canzoni di Rory e Calum esplorano il passato e il futuro, così come la gioia, la perdita e la speranza, ed è stato inevitabile, per tutti noi, essere consapevoli di un certo clima durante la registrazione dell’album”. Nella title track, The Story, il ritornello esprime in poche parole tutta l’eleganza, fatta di gioia e malinconia sapientemente mescolate insieme, di un viaggio durato ben 43 anni. Quel che, senza ombra di dubbio, potremmo definire con una parola sola, bellezza: “And I’m still dreaming of the Hebrides / And I’m still leaning on the early years / And I can’t help feeling it will always be / The story of the life inside of me”.
C’è tanta roba, nell’ultimo disco dei Runrig. Undici canzoni che continueremo ad ascoltare a lungo, rapiti da un’invincibile dolce nostalgia. Oltre alle già citate The Story e Somewhere, la splendida Rise And Fall, con il finale strumentale Elegy, che richiama atmosfere da Sigur Ros. E poi “The Place Where The Rivers Run” – quel posto è l’isola di Skye – che ripercorre la storia del gruppo, canzone dal ritmo irresistibile e capace di mescolare l’ironia alla tristezza. E, ancora, 18th July, brano quasi springsteeniano che racconta della tragedia del volo della Malaysian Airlines, abbattuto da un missile nel 2014, ed in cui trovò la morte anche un giovane fan del gruppo. Undici canzoni di una band che paga tributo al proprio passato e che, allo stesso tempo, non riesce a smettere di guardare ad un oltre, che è la musica stessa che non smette di essere viva.
Alla domanda “quale futuro per la band?”, Calum Macdonald ha risposto poco tempo fa: “semplicemente la prossima canzone”, mostrando la semplicità ed il candore di chi è grato e stupito che il proprio viaggio sia durato così a lungo e possa proseguire in qualche modo ancora. In fondo, nel corso della loro storia, i Runrig non hanno subito tanti cambiamenti ed anche gli amici che sono partiti sono rimasti tali. Come gli stessi Donnie e Peter, saliti sul palco durante il concerto che, il 10 agosto 2013, ha celebrato il quarantennale della band, immortalato nel triplo cd e dvd Party On the Moor. Come in una delle loro più celebri canzoni, Protect And Survive, i Runrig non sono cambiati, hanno conservato ciò che è prezioso, combattuto la buona battaglia, e sono sopravvissuti. L’amore per la loro terra, la riscoperta delle radici ed un paziente lavoro perché non andassero perdute. Un perenne senso di sfida ed un animo rock’n’roll nei confronti della vita. E, al fondo di tutto, un’amicizia leale e sincera, in una parola il senso di famiglia. Ed ora che i capelli si sono ingrigiti o che qualcuno, come Malcolm Jones – operato anche di bypass, ma tornato sul palco più vivace di prima – li ha quasi persi del tutto, sono ancora lì a dirci che quando una vicenda è sincera, sopravvive all’usura del tempo. Ambasciatori di una storia che non vuole tramontare e cantastorie di una nuova generazione, i Runrig sono ancora qui con noi, a dirci, come nel primo verso della loro bellissima canzone Every River, di continuare a credere nella magia. Come in una grande, bellissima, storia d’amore.