Canta Mondo Politico, Francesco De Gregori – la sua rilettura di Political World di Bob Dylan – e in un istante passano davanti agli occhi i fotogrammi del recente attentato di Bruxelles: “Viviamo in un mondo politico / benvenuta non è la pace / che se ne va a bruciarsi viva / nell’esplosione di una fornace”. E riesce difficile non ritornare con il pensiero anche al Bataclan, rinchiusi come siamo dentro l’Alcatraz – il noto locale milanese meta di tanti concerti – la mente ed il corpo solo apparentemente distesi tra un bicchiere di birra e la magia di mille canzoni. Siamo qui per la musica e per la nostra gioia, eppure il cuore resta turbato dalla stessa domanda senza risposta, quella gridata a Dio fin dai tempi di Giobbe: cosa centra questo dolore col nostro desiderio di felicità? Qual è il suo imperscrutabile significato?
Francesco De Gregori è tornato a Milano, col suo fagotto di canzoni, questa volta frutto di amore e furto, come recita il titolo del suo ultimo disco, un lavoro di paziente traduzione di undici canzoni di Bob Dylan, brillantemente arrangiate in maniera simile a quelle dei dischi originali dell’artista americano. Tutta la prima parte dei concerti del suo tour di quest’anno è invariabilmente composta da otto canzoni del disco, al punto che Francesco saluta inizialmente il suo pubblico dicendo “benvenuti a questo concerto in onore di Bob Dylan”.
Viene in mente quella sera del 1992, al Madison Square Garden di New York, in cui molti tra i migliori musicisti rock si erano dati appuntamento per celebrare il trentesimo anniversario dall’uscita del suo primo disco, e lui, Dylan, li aveva spiazzati tutti. Uscito sul palco alla fine, solo e con la chitarra acustica a tracolla, aveva scelto Song To Woody, il brano dedicato al maestro Woody Guthrie, colui di cui aveva sempre conservato una paternità nel cuore. I riflettori puntati su di sé, Dylan aveva ancora una volta proseguito dritto per la sua strada.
Francesco De Gregori non sembra, in questo momento, compiere un’operazione molto diversa. Certo, c’è da promuovere un disco appena uscito, ma anche per lui è difficile nascondere dove lo porta il proprio cuore. E che la sua musica sia stata da sempre influenzata da quella dell’artista americano non è un mistero per nessuno, con lo stesso Francesco ad affermare di non aver “mai teorizzato l’originalità a tutti i costi”, poiché “niente nasce da niente”.
Eppure è difficile non pensare a De Gregori come ad uno degli artisti più originali in assoluto dell’intero panorama musicale italiano. Difficile non pensare a certe strofe delle sue canzoni come a qualcosa che s’infila sotto la pelle e tra le pieghe della mente, e che sembra fatto apposta per descrivere pensieri ed emozioni, sentimenti e pezzi di strada delle nostre stesse vite. Difficile non guardare a lui, talvolta, come spesso la gente ha provato a guardare Dylan, artisti riconosciuti come sempre un po’ più avanti nello sguardo sulle vicende della società in cui sono immersi, e quindi persone a cui rivolgersi per interpretare circostanze e tendenze, cui affidare aspettative. Esercizio arbitrario e da sempre rigettato da loro, che, invece, non vogliono essere rappresentativi di nulla se non di se stessi.
Si pensi, ad esempio, all’ultimo disco di inediti di Francesco, Sulla Strada, ed alla canzone Guarda Che Non Sono Io, col suo immediato richiamo alla dylaniana It Ain’t Me Babe, in cui è il musicista stesso a mettere in guardia il suo interlocutore, con quel “guarda che non sono io quello che stai cercando / quello che conosce il tempo e che ti spiega il mondo / guarda come sta piovendo / guarda che ti stai bagnando / guarda che ti stai sbagliando / guarda che non sono io“. Come a dire: non fare l’errore di venire a chiedermi il significato delle mie canzoni per decifrare ciò che stai vivendo. Se una canzone o un disco servono a qualcosa, è a far riflettere te e lasciare che rimanga aperta una domanda di significato su ciò che ti accade, con tutti i rischi del caso.
Provare ad avvicinarsi così ad un nuovo concerto di De Gregori rappresenta, per chi scrive, l’unico approccio buono per entrare ancora una volta nella vera magia delle sue canzoni. Che appaiono, grazie all’apporto di una band ormai rodata, musicalmente più che mai incisive, mantenendosi per il resto sempre solide, grazie alla voce di Francesco che non perde smalto con gli anni, ma, giocando come sempre con le parole, rimane in grado di resistere anche sui più registri impegnativi.
Nella prima parte del concerto, come si è già detto, si assiste alle riletture dei brani di Dylan, con De Gregori che, interpretandole, sembra assumere perfino le posture stesse dell’artista americano. Un po’ rigido, a tratti quasi impacciato e chaplinesco, confessa anche candidamente di aver bisogno di tenerne il testo scritto davanti mentre canta, nel timore di cadere in qualche errore. Perché si tratta di Bob Dylan, spiega, e le parole sono importanti, non come quelle, invece, delle sue canzoni, che “se non mi ricordo qualche parola, la cambio che voi neanche ve ne accorgete e a volte diventa anche meglio di prima”. C’è un’unica eccezione, Non è buio ancora, la dylaniana Not Dark Yet, di cui afferma di aver imparato subito a memoria il testo e che, come d’incanto, ci getta all’indietro nelle atmosfere di quel disco, Time Out of Mind, che tutt’oggi resta una delle vette dell’intera opera di Dylan.
Ma è la seconda parte del concerto, quella aspettata da tutti con maggior desiderio, e De Gregori non delude. Ci sono i classici di sempre, come Generale e Pablo, cantati in coro dal pubblico dalla prima all’ultima strofa. C’è Buonanotte Fiorellino, al termine della quale Francesco confessa, con un po’ di tenerezza: “l’ho cantata proprio come la cantate voi”, che sembra quasi una dichiarazione di non appartenenza, ciò che accade quando una canzone è in grado di camminare da sola, è entrata nella vita di tante persone e dentro ciascuna di quelle vite si è fatta capace di dire qualcosa.
Poi ci sono i brani a torto ritenuti minori, solo perché uditi meno spesso degli altri, come L’Angelo, In Onda, La Casa, e Pezzi di Vetro quest’ultima in versione acustica e solitaria. La band è in grado di passare con disinvoltura dai momenti più intimi a fasi ritmicamente più serrate, come è il caso de L’Agnello di Dio, che, conA Pà, costituisce invariabilmente l’inizio della seconda parte degli show in questo tour.
E poi, all’improvviso, arriva Santa Lucia. Il corpo di Francesco si fa immobile, gli occhi si chiudono, la voce si aggrappa al microfono come se, liberata, riuscisse finalmente ad uscire per gettarsi dentro la nostra mente e i nostri pensieri. Quattro minuti di canzone diventano un tempo dilatato e senza confini, lo fanno divenire sottile gioia ed emozione, fino a fondersi con quelle note finali, l’attacco di “Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla, con Francesco che sparisce, si siede nel buio, sposta i riflettori da sé e lascia che la luce, dal centro del palco, raggiunga, dentro le note, i mille cuori che gli stanno intorno.
Ventitré canzoni scorrono via veloci, si arriva in un lampo alla fine dello show, e ancora una volta è il turno di uno dei classici di sempre, una Rimmel che non dimostra per nulla i suoi quarant’anni, a chiudere il concerto prima del classico encore. E qui De Gregori riserva una sorpresa, tre brani, invece dei soliti due, a chiudere il concerto ed il primo di essi è Passo D’Uomo.
Una splendida melodia e un testo che ti chiede di lasciare aperta una domanda. Perché non importa se finisci per sentirti “come un operaio lungo la massicciata, pane che sa di polvere ed acqua salata”, con l’impressione di “costruire per niente e di non vedere la fine”. Non importa perché quella domanda di senso è il tuo “passo d’uomo” e sperimentarne il limite non è sconfitta, ma inizio di un bisogno di misericordia che fa sì che dentro quel passo si possa fare esperienza, invece, di grandezza.
Il finale del concerto corre a perdifiato lungo La Donna Cannone, ancora una volta una canzone da cantare in coro, e Fiorellino #12&35, un classico da ballare lungo le note della dylaniana Rainy Day Women #12&35. Per uscire dalla sala, al termine, e gettarci fuori nelle vie della città, liberi e felici. Adesso che Francesco ha riaperto “un libro che si può leggere fino a tardi”, il libro dei nostri cuori. Ora che ci ha fatto sentire tutti compagni di viaggio, quelli che non dovrebbero lasciarsi mai, perché saranno anche destinati a percorrere rotte diverse, ma sono pur sempre marinai. E perché quelle rotte potranno pure essere differenti, ma come è vero che possono diventano tutte entusiasmanti nello stesso modo. Nell’attimo in cui scorgi che la meta del viaggio è già scritta. Dentro ogni passo del cammino.