Cominciamo col dire che stiamo per raccontare quasi tre ore di concerto, proprio per questo motivo previsto alle 20,00 (con quarto d’ora accademico e inizio alle 20,15) e tenutosi al Forum di Assago, non stracolmo, ma piuttosto pieno per una band non così conosciuta in Italia.
E sembra strano, perché la Dave Matthews Band è in giro ormai quasi da 5 lustri ed è uno dei gruppi di spicco di quell’incrocio fra folk e rock che li porta a girare in lungo e in largo soprattutto gli Stati Uniti d’America, ma il mondo intero. Una band che ha prodotto 8 album in studio e 60 (leggasi sessanta) album live, più un’altra cinquantina di titoli fra video, video album, singoli e compilation. Il che dice molto del vestito dentro cui la band sta più comoda: il concerto.
La band arriva a questo concerto milanese senza un album nuovo da promuovere, e quindi si intuisce da subito che sarà una serata soprattutto di grandi classici, per la gioia dei fan. Infatti l’apertura, come spesso avviene, è affidata ad un lungo brano che permette alla band di scaldarsi ed entrare nel mood giusto. Stasera è Loving Wings, dal ritmo vagamente caraibico, un pezzo mai registrato in studio ma presente in sei album live. Ma subito dopo l’irresistibile riff di The Stone ci porta subito nell’empireo dei super-successi. Non c’è sedicesimo che il batterista Carter Beauford non percuota, la macchina da guerra è avviata, la voce di Dave sembra a posto, si sa, è uno dei principali problemi, che tenga fino alla fine. Un assolo finale di sax porta al parossismo ritmico accennando ad un certo punto quasi una tarantella. La scaletta prosegue con la poetica e sentimentale Satellite e poi Funny The Way It Is dall’album del 2009 Big Whiskey & the GrooGrux King. Sullo sfondo a led partono delle immagini video di difficile decifrazione, e con esse il primo solo di violino di Boyd Tinsley, al solito sostanziale e sghimbescio, e un solido solo di elettrica di Tim Reynolds.
A questo punto, abbastanza a sorpresa, entra un pianoforte, che Dave confessa di non saper suonare così bene, anzi di suonarlo con un dito solo… Naturalmente scherza, e Death On The High Seas è un brano nuovo, inedito ed eseguito per la prima volta lo scorso giugno. Un affascinante ritornello in falsetto ci butta poi su Stay Or Leave, che ci fa apprezzare un perfetto light show a sottolineare alcuni passi della canzone, e poi Seven, quasi sbarazzina ma di una potenza fulminante. #41 è epica e ci fa andare agli inizi della carriera di Dave, per poi approdare ad un’altra canzone nuova, Black And Bluebird, brano interlocutorio, forse scelto per prendere un po’ di fiato prima dell’esplosione di Don’t Drink the Water e il suo scenario post nucleare e caotico. If Only, tratta dall’ultimo album (del 2012) Away from The World, è dedicata alla memoria di Corsina Andriano, giovane autrice di una biografia della band in Italiano, suicidatasi poco dopo l’uscita del libro.
Un’ora e mezza se ne è andata e parte il grande classico Jimi Thing, funk possente che si ferma sui due accordi della strofa e lancia un solo di violino che cammina a cento metri d’altezza, su un filo, senza bilanciere… si rifanno alla grande il solo di Jeff Coffin al sax tenore e quello di Rashan Ross alla tromba. Manca all’appello dei nominativi della band Stefan Lessard, al basso, onesto lavoratore delle quattro (e cinque) corde e solido supporto armonico per la band. Crash Into Me non si può commentare. È.
Con Kill The Preacher, nonostante l’equipaggiamento elettrico, sprofondiamo nelle radici, nel vecchio selvaggio west. Subito dopo l’equipaggiamento è giustificato, per una esplosiva e fedele Why I Am. Crush e il suo ritmo funky suggellano le due ore e un quarto di concerto, quando parte la botta di So Much To Say, che con un medley di false partenze-intro di altri pezzi ci porta ad una sfrenata Ants Marching (primo grande successo mondiale di Dave Matthews nel 1994). È il brano di chiusura, qualche minuto di pausa, la camicia pulita e c’è tempo ancora per The Space Between e la bellissima e profonda Grey Street.
Tutto bello? Sicuramente questa è una band che suona e che incarna tutte le possibili anime della musica nordamericana, dal folk rurale, al blues, al funk, a qualche fraseggio jazz. La voce sabbiosa di Dave è sempre affascinante da ascoltare (per la verità a tratti tenuta un po’ bassa nel mix) e la sua maniera di raccontare colpisce chi apprezza le storie, il lessico e l’unione di testo e melodia (se sa un po’ di inglese…).
Molto spazio è lasciato agli strumenti solisti, che suonano lunghi assoli, talvolta forse allungando un filo troppo il brodo. Il sassofonista Jeff Coffin è sicuramente il più interessante dal punto di vista del linguaggio impiegato, il folletto-chitarrista elettrico Tim Reynolds perfettamente a suo agio in brani che conosce a menadito e dal vocabolario comunque convincente.
Ma il vero asse portante è quello che – anche fisicamente – si sviluppa al centro del palco, dividendolo longitudinalmente in due metà: Carter alla batteria e davanti a lui Dave. Il motore ritmico ed il carburante delle canzoni. Le impalcature di sostegno e i fregi e le guglie delle invenzioni melodiche e testuali. Il resto c’è – ed è consistente – ma fa da supporto a questa santa alleanza, a questa duplice intesa che ha creato il marchio di fabbrica del gruppo. In definitiva, soldi tutto sommato spesi bene.