Adesso è forse il caso di dirlo: se dovessimo individuare un gruppo ancora in attività che più di tutti incarni lo spirito e l’identità sonora e attitudinale degli anni Zero, questi sono proprio i The XX. Qualche anno fa avrei senza dubbio indicato gli Arcade Fire ma la band canadese, per quanto enormemente cresciuta in popolarità e potenzialità espressive, è rimasta quasi del tutto intrappolata nell’ambito “Indie” e non è ancora riuscita a schiodarsi di dosso il proprio disco d’esordio, ancora (ingiustamente a mio parere) ben saldo nelle preferenze dei fan.
Ci potrebbero essere i Daughter allora, ma la band di Elena Tonra, a dispetto dei consensi ottenuti, rimane ancora troppo settoriale, esprime un tipo di sound che, per quanto accessibile, non è in grado di piacere a tutti.
Non è azzardato fare il nome dei The XX, dunque. Il terzetto di Wandsworth, nei pressi di Londra, ha esordito nel 2009 come un fulmine a ciel sereno e il loro Pop minimale e dalle atmosfere vagamente notturne non ci ha messo molto a conquistare larghe fette di pubblico, tanto che alcune delle loro canzoni sono state utilizzate per spot pubblicitari e serie TV, rendendo ancora più famigliare l’impronta sonora della band.
Il successivo “Coexist” (2012) non ha fatto altro che confermare le buone impressioni. I The XX sono riusciti ad incarnare perfettamente quella che da più parti viene indicata come l’anima sonora di questo nuovo millennio: una fusione a volte scolastica, a volte maggiormente eclettica, di tutta una serie di elementi appartenenti al passato (per lo più Wave, Post Punk ed Electro Pop di inizi anni ’80), con una sempre più ingente preponderanza di tastiere, sintetizzatori, campionamenti ed elettronica varia, a discapito delle chitarre.
L’esordio di Romi Madley Croft, Oliver Sim e Jamie XX guardava proprio in questa direzione: brani dalla struttura ridotta all’osso, basso pulsante spesso in primo piano, una chitarra a disegnare pochi ed essenziali fraseggi, sulla scia di band come New Order e Young Marble Giant, beat leggeri in sottofondo, ed un dialogo a due voci, entrambe calde ed espressive, al servizio di melodie che guardano ora al Dream Pop di inizio anni ’90, ora ai primi dischi dei Cocteau Twins.
Il secondo lavoro presenta un’accentuazione della componente elettronica, canzoni nel complesso più ricercate e leggermente meno immediate, ma la ricetta non è nel complesso cambiata.
Seguono quattro anni di silenzio, durante i quali la band si è meritatamente riposata, si è dedicata a progetti paralleli, e soprattutto Jamie ha avuto modo di crescere esponenzialmente, realizzando produzioni e remix per grandi nomi del Pop mondiale (vedi Drake) e due album solisti di cui soprattutto l’ultimo “In Colour” ha rivelato al mondo le sue potenzialità espressive.
È una considerazione trita e ritrita ma nella società di oggi, tutta immagine, apparenza ed emozioni a buon mercato, è molto difficile che ci si ricordi di una band giovane se questa ritorna dopo quattro anni.
Eppure, prima i singoli “On Hold” e “Say Something Loving”, poi il nuovo disco “I See You”, uscito a gennaio, hanno fatto capire che c’era ancora parecchia fame di XX.
Se il secondo disco, dicono, è il più difficile nella storia di una band, il terzo è indubbiamente quello più rischioso e sbagliarlo potrebbe tranquillamente rappresentare la fine di una carriera.
Non dovrebbe essere così, per loro. I dieci brani che lo compongono (dodici nell’edizione limitata) non sono solamente di qualità elevatissima, ma presentano anche numerosi elementi di novità, con uno spettro sonoro notevolmente variegato ed allargato, mediante l’incorporazione di molti elementi che vanno dalla Dance all’RnB. I testi, sempre molto curati, hanno assunto una dimensione ancora più matura, sempre all’interno di una riflessione sulla difficoltà dei rapporti di coppia e sulla gestione delle proprie fragilità emotive.
L’unica data italiana di questa leg invernale del tour (torneranno poi a luglio per altri due concerti, a Roma e Firenze) ha fatto registrare un rapido sold out nell’ampia cornice del Forum di Assago. Non male per una band che solo otto anni fa si esibiva nella ormai scomparsa Casa 139 davanti a poche centinaia di persone.
È un pubblico per lo più giovane e non stilisticamente connotato, quello che accoglie Floating Points poco dopo le 20. Se in tutto il resto del mondo i tre inglesi sono stati accompagnati da Kelela, promettente artista “New RnB” sulla scia di FKA Twigs, per la data milanese è Sam Shepherd ad aprire. Una scelta misteriosa, che potrebbe però avere a che fare più con impegni della cantante, piuttosto che con la scarsa dimestichezza del pubblico italiano con un certo tipo di sonorità.
“Elaenia”, uscito nel 2015, era stato un buon lavoro che fondeva Elettronica, Fusion, Jazz e Math Rock in un insieme a tratti schizoide ma anche terribilmente affascinante. Qui però non c’è una band per poterlo suonare, Sam è da solo e dunque l’esibizione si limita ad un dj set che pur presentando dei buoni spunti, non riesce mai a coinvolgere il pubblico, sia per il volume non particolarmente elevato, sia per una saturazione dei bassi francamente insopportabile.
Per fortuna le cose cambiano quando sono gli headliner a salire sul palco. Le note di “Say Something Loving” danno il via allo show ed immediatamente impazziscono tutti. Il brano viene cantato parola per parola e tutto il Forum si trasforma in un Dance Floor. Senza soluzione di continuità, la band si tuffa in “Crystalised” e “Islands”, due dei brani più celebri del primo disco, e l’atmosfera si scalda ancora di più.
Il colpo d’occhio è bellissimo: il palco è decorato interamente a specchio, soffitto compreso, con prismi che ruotano in continuazione e riflettono un semplice ma suggestivo gioco di luci.
La disposizione dei tre è quella che conosciamo: Jamie in alto sullo sfondo, ad armeggiare con synth, tastiere e percussioni e a gestire tutta la componente elettronica. Pur non essendo quello in primo piano e l’unico a stare sempre lontano dal microfono, è il vero cuore pulsante dello show, colui che lo dirige e detta la forma che man mano prendono i vari episodi in scaletta. È cresciuto tantissimo musicalmente e se oggi gli XX sono quelli del terzo album è soprattutto merito suo e del suo straordinario gusto melodico al servizio dell’elettronica.
Davanti sulla sinistra, Romi si occupa di tutte le parti di chitarra e canta con una delle voci più intense ed espressive che ci sia mai capitato di sentire. A destra, Oliver lavora di basso e affianca la ragazza nelle parti vocali, anche lui con una resa a dir poco splendida.
La resa globale è meravigliosa, anche perché l’acustica appare ora notevolmente migliorata. I brani del nuovo disco occupano gran parte dello show (alla fine ne verranno suonati otto su dieci) e sono accolti con boati di approvazione da parte del pubblico, che in molti casi dimostra già di conoscerli perfettamente. Buon segno, non c’è che dire, così come impressiona notare come queste canzoni siano perfettamente amalgamate con quelle più vecchie, e siano forse quelle che dal vivo hanno l’impatto migliore. Una possibile indicazione per il futuro, l’intuizione che riempire il suono e diversificare le atmosfere potrebbe rappresentare una carta vincente da giocare.
Si prosegue con “Lips”, affascinante nei suoi intrecci vocali e nelle sue sonorità romantiche. Poi una commovente “Brave for You”, che Romi ha scritto per i suoi genitori, entrambi scomparsi, e che viene cantata con un trasporto a cui il publico, consapevole o meno delle implicazioni del brano, si unisce prontamente, generando un suggestivo coro sul ritornello.
“Basic Space”, altro singolo importante del nuovo disco, riporta lo show su tonalità più scarne e dimesse, mettendo in primo piano il basso e le voci. Ancora una volta è sorprendente notare quanto i nostri siano cresciuti nell’esperienza e nell’interazione. Giovanissimi, proiettati dall’oggi al domani sui più importanti palscoscenici internazionali, hanno saputo trasformarsi nel giro di tre dischi in una macchina perfetta di professionisti navigati, precisi ed impeccabili ma nello stesso tempo caldi e coinvolgenti.
La successiva “Performance” ne è un fulgido esempio: Romi la canta e la suona da sola (“cosa che mi rende molto nervosa”, dice timidamente), riuscendo così a comunicare quello che il brano tenta di esprimere: la vita come una continua esibizione, le fragilità costantemente mascherate dall’obbligo pressante che la vita impone, di farsi vedere in forma sempre e comunque (“Metterò in piedi una performance, metterò in piedi uno show. È una performance, farò tutto questo. Per cui non mi vedrai soffrire quando il mio cuore si spezzerà. Metterò in piedi una performance, metterò in piedi una faccia coraggiosa.” Un’esecuzione da pelle d’oca, il punto più alto del concerto, senza ombra di dubbio. Gli altri due le stanno accanto e la guardano ammirati mentre suona, per prodursi poi in un applauso spontaneo, che si accompagna alle urla ormai senza freno del pubblico.
E con questi due minuti scarsi (è stata eseguita solo la prima strofa e il ritornello, purtroppo) Romi, è riuscita in qualche modo a spazzare via le insicurezze del testo: si potrà pure recitare una parte, ma è difficile, quasi impossibile celare l’autenticità della vita, quando questa scorre così impetuosa.
C’è spazio poi per una cover di “Too Good” di Drake, che i The XX vestono alla loro maniera e che, sorprendentemente o forse no, non viene per nulla riconosciuta dai presenti (che Drake, Kanye West, Kendrick Lamar e simili non siano molto popolari nel nostro paese, non è un mistero).
Poi via con una coinvolgente “Infinity”, da un secondo album fortemente penalizzato in questo tour (ne verrano eseguiti solo tre brani) e una “VCR” che fa letteralmente esplodere il Forum.
Ma quando arriva “Dangerous” (“Questo è un pezzo che ci divertiamo tantissimo a suonare dal vivo” dice Oliver) con la sua sezione di Brass campionata, l’entusiasmo dei fan non è assolutamente inferiore a quello dimostrato durante il più grande classico della band.
Lo stesso si può dire per i successivi due pezzi di “I See You”: “I Dare You” (pazzesco il singalong durante il ritornello) e la strepitosa “A Violent Noise”, che porta lo show a livelli musicali ancora più alti di prima.
Mai vista tanta euforia per un disco uscito da poco più di un mese. Qui siamo al cospetto di un centro totale da parte dell’act britannico, la miglior risposta a tutti coloro che hanno criticato il lavoro all’indomani dell’uscita, dicendolo troppo distante dal tipico trademark del gruppo.
Siamo quasi alla fine e quando la coda di “Fiction” si trasforma in un’orgia elettronica che sfocia in una versione remix di “Shelter” (decisamente più incisiva di quella originale, almeno in questo contesto) si capisce che è arrivato il momento di lasciarsi andare e di ballare come se non ci fosse un domani. È un vero e proprio clima disco quello che si crea ed è Jamie il vero protagonista, col suo mixare i brani insieme usando pochi beat melodici e percussivi, alternando accelerazioni e rallentamenti per aumentare l’enfasi.
Dulcis in fundo arriva anche “Loud Places”, direttamente dal suo disco solista, ad incendiare ancora di più gli animi. È un climax di straordinaria intensità e il suo culmine non poteva che coincidere con l’abbandono del palco da parte dei tre, che si congedano ad uno ad uno, lasciando in sottofondo i pattern strumentali della coda del pezzo.
È un chiaro segno che non è finita e infatti, pochi minuti dopo, eccoli di nuovo. Sappiamo già cosa ci aspetta, a questo punto: Jamie esce per primo, armeggia un po’ con le basi fino a quando introduce il campione di Hall & Oates che sta alla base di “On Hold”. Ancora una volta entusiasmo sfrenato, per quello che è probabilmente l’episodio a più alto gradimento di tutto il concerto.
Non può mancare “Intro”, vero e proprio manifesto sonoro del trio, che pur essendo una breve strumentale da un paio di minuti, è quella che maggiormente li identifica nell’immaginario collettivo, anche per il massiccio uso commerciale che ne è stato fatto.
Adesso, purtroppo, è veramente finita. La delicatezza di “Angels” chiude lo show con un tono nostalgico che stempera un po’ la festa Dance di poco prima, sorta di richiamo a quel fondo di tristezza che è insito in tutte le cose, anche le più spensierate.
Mi avevano raccontato di una band impacciata, ai suoi esordi, imprecisa dal vivo, con voci spesso e volentieri stonate. Questa sera abbiamo assistito ad un concerto perfetto, sia dal punto di vista tecnico che da quello emozionale.
Siamo a febbraio e con tutti gli appuntamenti che ancora ci sono in programma, parlare di “concerto dell’anno” sarebbe indubbiamente esagerato. Sono però piuttosto certo che sarà dura, molto dura, scalzarlo dalla mia top five, da qui dicembre.
Chi non c’era li vada a vedere a luglio. Mi viene davvero difficile indicare qualcosa di meglio da fare, al momento.