La soglia dei trent’anni non è una soglia qualunque. È probabilmente il primo, autentico passaggio della vita in cui si avverte che qualcosa è sparito. Non accade così quando si festeggia il ventesimo compleanno e nemmeno al raggiungimento del venticinquesimo. I trent’anni sono diversi. La giovinezza è finita per sempre, non si è vecchi ma si è forse, per la prima volta, raggiunto quel punto in cui ci si comincia a guardare indietro, in cui si cominciano ad avere in qualche modo dei rimpianti. C’è poco da fare, arrivati i trenta non si è più gli stessi e, per dirla con i Massimo Volume, è il momento in cui si fanno i conti con cose di cui si aveva prima una conoscenza solo vaga.
Per esempio, il proprio lato oscuro: “Mi stai cercando? Stai fermo, sono proprio qui. Non è divertente? Ti stavo cercando, perché lei se ne è andata e io non voglio vedere nient’altro che te.” Che quel “lei” sia una donna in carne ed ossa o piuttosto una personificazione della giovinezza, cambia poco: il disco di debutto di Omake si apre nel segno dell’insicurezza, della scoperta, dicevamo, che ci sono cose di noi che prima ignoravamo.
Francesco Caprai è un ragazzo di Pisa che sta però di casa anche a Milano. Ha sempre composto canzoni in camera sua, con una chitarra acustica come unico accompagnamento. Oggi è più facile, se hai talento, arrivare da qualche parte. Basta mettere i propri pezzi online e, se si merita davvero e se si è un minimo fortunati, una possibilità qualcuno te la darà.
A Francesco è successo così. Una sua canzone, “Florida”, una ballata folk malinconica e intensissima, è piaciuta molto ai tipi di Sherpa Records che assieme ai loro partner della Costello’s ci stanno regalando dischi di livello altissimo sin da quando hanno aperto, meno di un anno fa.
Sotto il monicker di Omake, quello di Francesco è diventato il primo prodotto in uscita per la neonata etichetta milanese.
Un successivo singolo, la cover di “Hold On, We’re Going Home” del rapper canadese Drake, ha spiazzato quanti credevano che Omake sarebbe diventato il Bon Iver italiano. Sensazione che è stata puntualmente confermata dall’uscita del tanto atteso disco di debutto, “Columns”. La copertina nerissima, con le tre colonne stilizzate al centro, così lontano dagli archetipi del folk; il claustrofobico video di “Purest Love”, episodio che dietro alla melodia eterea cela beat e campionamenti, oltre che un certo feeling oscuro, è stato un altro importante indicatore.
D’altronde lo ha detto lui stesso presentando il lavoro alla stampa: “Le canzoni sono nate chitarra e voce, non con uno spirito prettamente folk ma piuttosto quello di un punk rocker che imbraccia una chitarra acustica.”
Anche se, a voler dire la verità, qui più che il punk si sente, forte, il profumo del Post punk. O della New Wave, fate voi. Di sicuro la voce di Francesco, profonda, baritonale, a metà strada tra un Matt Berninger e un Dave Gahan, è l’ideale per farci entrare in un territorio dove The National, Interpol, Depeche Mode e Joy Division sembrano convivere pacificamente.
I beat e i campionamenti sono essenziali nel definire le coordinate del lavoro, tutti i pezzi sembrano appoggiarsi ad essi ed essere costruiti attorno a questi elementi, pur senza snaturarne l’occasione acustica di partenza.
Che sia un disco sofferto, è evidente. Ma la sofferenza non è mai fine a sé stessa, nelle nove canzoni che lo compongono. Già l’iniziale “Darkside – The Fighter”, di cui parlavamo prima, ha questo tono cupo nella strofa iniziale, quasi da canto sciamanico, ma quando entra una chitarra arpeggiata in pieno stile The Edge e arriva il ritornello, l’oscurità si stempera almeno un poco, in una richiesta a “non lasciarmi qui a combattere da solo” perché “sto percorrendo una strada che non conosco”.
Le tenebre sono evocate anche in “Nighthawk”, una ballata cupa che canta il desiderio di confondersi con la notte (“Come un uccello notturno vorrei solo correre via mentre sogno, e un sole estinto mi seguirà come un figlio devoto al capezzale di sua madre”) e che si stempera però in un ritornello bellissimo, che nella tristezza che evoca fa comunque trapelare una possibilità che quella fuga agognata, da qualche parte possa infine approdare.
È così, questo disco. Si parla della difficoltà di crescere, di superare quella “linea d’ombra” di cui già Conrad ci aveva spiegato tutto, si evocano sindromi pesanti come quella di Korsakoff (che, a quanto pare, è connessa con l’abuso di alcol), si chiede alla donna amata di abbatterci come si farebbe con un cervo; ma non per questo si può parlare di un disco per depressi.
C’è la tristezza, c’è la malinconia, certo. Questa non è roba per chi ama i Mumford and Sons e le loro sviolinate sentimentali ammantate di esibita dimensione spirituale. Qui l’autenticità dell’esperienza trasuda davvero. Ma è la bellezza delle melodie ad essere protagonista. Una bellezza tale che si può solo ascoltare commossi e che fa pensare che, qualunque siano stati i pensieri di chi le ha composte, di sicuro non era sconfitto e senza speranza.
Cupezza ed ariosità, affanno e respiro, sono dunque le due componenti emotive di questo lavoro. Che accanto ad una scrittura di prim’ordine annovera anche un lavoro di produzione e di arrangiamento davvero notevole, ad opera dello stesso Omake e di Davide Barbafiera, che ha prodotto il tutto ma che è stato anche responsabile del grosso degli elementi elettronici presenti. E poi, due featuring di eccezione, come è sempre stato di moda nel mondo dell’hip pop: Machweo nell’ipnotica “Slowrunner” e A Safe Shelter su “Deer – The Hunter”, che è una delle tracce che maggiormente hanno conservato la propria dimensione acustica ma dove il tappeto ambient creato dal musicista milanese (il cui debutto è atteso anch’esso su Sherpa Records) non sfigura per nulla.
A chiudere il tutto, arriva la già conosciuta “Florida”, ideale coda luminosa del disco, lei che del viaggio di Omake ha rappresentato il primo, preziosissimo inizio: “Dalla luna arriverò in Florida. Sarà un duro viaggio ma ne varrà la pena. Attraverserò cieli e terre che non mai visto prima. Arriverò a raccogliere le tue lacrime, nasconderò tutta la tristezza del tuo mondo e se cadrai, allora mi troverai e io ti tirerò su”.
“Columns” non è un disco per tutti ma solo nella misura in cui non si abbia voglia di fermarsi per una mezz’ora abbondante e farsi provocare e affascinare da queste magnifiche composizioni. Tutto il resto verrà da sé.