Chissà se è vero che Marlowe Billings è scappato da un reparto di psichiatria di qualche ospedale di New York, per finire nel Messico del sud, terra di confine con quei paesi del centro America in balia di narcotrafficanti e spesso dilaniati da sanguinose guerre civili.
Quel che è certo è che in passato il suo alter ego Dan Stuart non apparve secondo a nessuno in quanto ad abusi alcolici o ad eccessi di follia. Ed è un dato di fatto che in quel di Oaxaca la mente tormentata di Marlowe abbia finalmente trovato un luogo in cui riposare. Anni di sofferenza per Dan, lontani dalla musica dopo la fine, nel 1992, dei Green On Red, capitolo di quel romanzo, etichettato un po’ impropriamente “Paisley Underground”, che infiammò la musica a stelle e strisce degli anni ottanta, miscelando punk e psichedelia con le radici country e rock’n’roll.
Certo, c’era stata un’improvvisa reunion del gruppo, un concerto a Londra nel 2006, omaggio allo scomparso batterista della band, Alex MacNicol. Ed era stato affascinante rivedere insieme il gruppo, tornato sulla scena per onorare l’impegno di un concerto disatteso, quello show cancellato nel 1987, nel corso di un tour europeo interrotto a metà strada per l’incapacità manifesta di Dan Stuart a reggere la scena. Ma dopo quel concerto non si era visto più nulla, fatto salvo, se vogliamo, il secondo episodio Danny & Dusty – con il disco Cast Iron Soul, uscito nel 2007 – decisamente meno emozionante del primo e mai dimenticato The Lost Weekend, del 1985.
Poi, come d’incanto, Dan era tornato. Meno alcol, forse, una mente più lucida e distesa, i capelli grigi sul capo che dicono che tanto dolore si è stemperato nel tempo. E la musica, beh quella non era mai andata via. Merito anche dei Sacri Cuori, certamente, ottima band romagnola guidata da Antonio Gramentieri, che sembrava essere uscita da quell’America di trent’anni prima e che aveva incrociato il proprio destino col suo. Un nuovo disco, nel 2012, ed un libro, stesso titolo per entrambi – The Deliverance Of Marlowe Billings – a dire che forse Dan era stato finalmente liberato. E poi di nuovo un pugno di concerti, qua e là dove capita, dove c’è ancora qualcuno che non si è dimenticato di te.
Era davvero un bel lavoro, quel disco uscito dalle ceneri del vecchio Dan e dei mai dimenticati Green On Red. La sua voce, dall’inflessione younghiana e trascinata, che non sembrava essere mai invecchiata, mantenendo quella capacità tutta sua nell’esprimere la malinconia ed un desiderio di bellezza sempre ed inesorabilmente disatteso. Liriche che trasudano di amori traditi e violenti, d’ingiustizie sociali (“What Are You Laughing About?”), di destini infelici e segnati (“Gringo Go Home“). E la musica, ancora quel “desert rock”, intriso di dramma e desolazione, il sogno americano sbattuto chissà dove, finito nel bel mezzo del nulla dopo una corsa rettilinea all’impazzata.
“Love will kill you, so why pretend?“, sembrava l’inesorabile conclusione, liriche ripetute in maniera ossessiva in uno dei pezzi più riusciti del disco. Era questa la liberazione di Marlowe? O non era piuttosto una resa, di fronte all’invincibile capacità dell’uomo di andare sempre incontro all’autodistruzione di se stesso e di coloro che gli stanno intorno? Eppure nella penultima canzone di quel disco disco – “Searching Through The Pieces” – un’altra, l’ennesima ballata, che sembra fatta apposta per spezzare il cuore di chi ascolta – era lo stesso Dan a dire: “Now I’m just searching through the pieces / Ora frugo tra i frammenti / looking for whatever’s left of me / cercando ciò che resta di me“; un lamento, ma forse anche un segno di speranza: tra i frammenti di un io finito in pezzi, la liberazione si fa strada.
Quattro anni son passati e Dan Stuart è sempre tra noi. Ancora concerti, in giro per l’Europa, supportato ora da Tom Heyman, ora da Antonio Gramentieri e Fernando Viciconte dei Sacri Cuori. E di nuovo un disco, Marlowe’s Revenge, uscito lo scorso febbraio. Dan Stuart è morto, Dan è vivo, insomma, con le prime note di copertina che fanno intravedere un desiderio di riscatto: “se perdi una grande battaglia resterai afflitto per il resto dei tuoi giorni, assillato fino al giorno della tua rivincita”. Eppure lo sguardo si mantiene disincantato e sarcastico; sul sito personale dell’autore si legge infatti che “il mondo potrebbe fare a meno del punto di vista morbosamente ipocrita di Stuart, ora che la sua incapacità di far fronte ai piccoli insulti della vita si è fatta vecchia e stanca”.
Caro e ironico Dan che, per fortuna, non ti sei mai preso troppo sul serio. E, sempre sul sito, si legge anche la storia di questo nuovo disco. Fuori dalle righe, come lo è sempre stata la sua vita. Inizia tutto con una dozzina di canzoni, arrangiate con accordature aperte su una Martin scassata che “riflette alla perfezione la psiche di Stuart” e che sbarcano in un bunker di Oaxaca che chiamare studio di registrazione appare per lo meno azzardato. Canzoni che parlano di “amore e perdita, omicidio e vendetta: i soliti lamenti di Stuart, ma con una sorta di scintilla, un bagliore di luce nascosto da qualche parte nel profondo della sua pancia”. E quelle canzoni cercano una via d’uscita, una maniera per venire alla luce, finché Dan scova su internet una band messicana che “non è una caricatura del Messico”, ma una vera e propria garage band, in cui nessuno dei componenti del gruppo supera la metà dei suoi anni. Manda un messaggio su facebook a quei musicisti che “parlano un inglese scarso ma con un accento rock’n’roll”, per sentirsi rispondere: “sì, abbiamo uno studio di registrazione e incidiamo la nostra musica, ma tu chi diavolo sei?”.
Insomma, amore a prima vista. E per Stuart e i Twin Tones lavorare sulla produzione di Marlowe’s Revenge diventa un gioco da ragazzi. Certo, c’è l’aiuto anche di JD Foster, rodato compagno di viaggio in più di un’occasione, ma il disco che viene fuori, chitarristico, energico, graffiante, ha il sapore della freschezza di un frutto colto appena maturo. Hola Guapa, che apre il disco, The Whores Above, All Over You, richiamano alla mente le sonorità dei primi Green On Red, quelli di Gas Food Lodging e Gravity Talks, ma non si tratta di lavoro retorico dove la sensazione di un dèjà vu prende il sopravvento. Certo, la voce di Dan è sempre quella, malinconica e trascinata, e la chitarra che ricama sulla splendida ballata Soy Un Hombre richiama i momenti migliori di quella di Chuck Prophet, ma tutto il disco possiede un’indubbia originalità.
Il suono della frontiera compare poco, solo qua e là e probabilmente più per merito di Stuart che dei suoi giovani e rampanti amici messicani. E’ il caso di Name Hog, canzone dal ritmo peraltro serrato ed ironica e sprezzante nei confronti di musicisti e discografici, e di Zipolite, lenta e notturna, invece, dove la narrazione da scrittore noir di Stuart riemerge prepotentemente. Proprio Name Hog sembra spiegare meglio anche il titolo del disco. Nei confronti di chi Marlowe può avere bisogno di rivalsa? “Verso tutti quei bravi cantanti e cantautori che stanno là fuori”, risponde laconicamente Dan.
Quanto è autobiografico quest’album? Possiamo intuire qualcosa, ma non ci è dato di entrare più di tanto nella mente travagliata del suo autore. Se Name Hog rappresenta il disprezzo verso un certo tipo di ambiente nel mondo musicale, scandagliando i testi troviamo quasi ovunque anche un rapporto conflittuale col sesso femminile. Hola Guapa, Elena – da cui è tratto il primo video del disco – Soy Un Hombre, The Whores Abovesono gli esempi più calzanti. L’amore è spesso perdita e frustrazione, quando non rabbia o disprezzo. Sembra la crisi e il disincanto di un uomo di mezza età che ha sofferto troppo, vagato senza mai giungere ad un porto sicuro – “dall’età di diciott’anni ho vissuto in venti case o appartamenti, in sette città diverse e in quattro nazioni” – e che non riesce a trovare una chiave di lettura su ciò che gli accade, nonostante, probabilmente lo desideri più di ogni altra cosa.
Eppure colpisce ascoltare le liriche di Last Blue Day, la terza canzone del disco, una ballata frapposta nel bel mezzo di un mucchio di canzoni dal ritmo incalzante, e che sembra far intravedere finalmente una luce. “It’s my last blue day”, è il refrain del brano, con quello splendido aggettivo, blue, che esprime cose che non si riescono mai a spiegare con le parole, mentre il protagonista assiste ad “un doppio arcobaleno sopra le colline / giù fino in fondo alla vallata / fino alla città che ho sempre amato”.
Le prime sette canzoni del disco corrono a perdifiato, a cavallo delle chitarre dei Twin Tones e delle liriche sferzanti di Stuart. Poi, con le ultime tre, si assiste ad un netto cambio di ritmo. Zipolite, la spiaggia delle anime, è lo scenario in cui sembrano liberarsi i fantasmi della mente visionaria di Dan, in cui la rabbia e l’ironia lasciano spazio all’inquietudine dell’anima. Lenta e notturna, inizia col rumore del mare e le voci di uccelli in sottofondo, ma il testo della canzone non richiama alla nota meta per turisti, poco distante da Puerto Escondido, ma ai riti sacrificali che si narra accadessero in quei luoghi secoli fa. La successiva Over My Shoulders ha a che fare ancora con l’amore tra un uomo e una donna, dentro un destino sempre incerto – no one really knows where the river flows until you get there, è la frase ripetuta incessantemente – ma col desiderio di una via d’uscita che non viene meno anche quando le “lacrime della vergogna e dell’infamia” sono “piovute” incessantemente sulla propria esistenza: “Non riesco a smettere di guardarmi alle spalle / non posso cessare di cercare un rifugio sicuro”.
L’ultimo brano, lento e malinconico, vede uscire di scena il suo autore in modo solo apparentemente quieto. Come Cetina’s Lament, strumentale ispirato ad un poema di Gutierre De Cetina, chiudeva The Deliverance Of Marlowe Billings, così The Knife conclude il nuovo disco, apparentemente senza una concreta possibilità di riscatto all’orizzonte: “non chiedermi cosa voglia dire vivere una buona vita / ho perso così tanti anni affilando la lama di un coltello / ho cercato di stare attento e so che alla fine non siamo altro che una preghiera / quaggiù dove tutti siamo soli / coi nostri sogni da portare a casa”. Ancora alla ricerca di se stesso, Dan Stuart sembra assomigliare alla figura del pagliaccio in lacrime, dipinta sul quadro alle sue spalle nella foto che lo ritrae sulla copertina del disco.
E adesso? Dove conduce la strada che sta percorrendo Marlowe Billings? E Dan Stuart, con due nuovi dischi in quattro anni, è finalmente tornato o sparirà di nuovo? Nessuno lo sa. “Certamente non Stuart” – lo rivela ancora lui – che adesso è troppo impegnato a godersi Città del Messico, dove si è trasferito all’età di 54 anni”. Concerti dal vivo con i Twin Tones, almeno quelli? Probabilmente sì, suggerisce ancora, anche “se qualcuno ne farebbe volentieri a meno”, preferendo che il mondo vada avanti secondo i suoi prevedibili schemi. “Ma non Stuart – aggiunge lui – ha appena cominciato”. E allora benvenuto di nuovo, vecchio Dan, noi non ci siamo ancora stancati di aspettarti.