Ernani, quinta opera del catalogo verdiano, nella messa in scena a Bologna sino al 19 maggio, merita di essere vista e ascoltata per tre differenti aspetti.
Sotto il profilo della gestione di una fondazione lirica, l’allestimento creato inizialmente per Palermo nel 1999 e basato su un impianto solo in apparenza tradizionale (le belle scene e i magnifici costumi sono affidati a un artista di razza, Francesco Zito) regge ancora benissimo anche in quanto la regia di Beppe Di Tomasi pone l’accento non sulla grandiosità (ad esempio la scena dell’Incoronazione di Carlo V ad Aquisgrana), ma sullo sviluppo psicologico dei personaggi (come intese Verdi) e cura, quindi, molto la recitazione. Ciò prova che con una buona politica di co-produzione e di scambi di allestimenti i costi degli spettacoli possono essere contenuti (calmierando pure quelli dei biglietti).
Sotto il profilo dell’interpretazione storico-politica, Ernani (commissionato al trentenne Verdi da un teatro austro-ungarico, La Fenice, per il compenso da favola di 12.000 lire austriache) dimostra a tutto tondo come sia errata la visione secondo cui il “cigno di Bussetto” fosse un patriota unitario e risorgimentale. Il protagonista, Ernani, è sì un ribelle contro l’ordine costituito, ma aspira alla secessione della sua regione dalla Spagna e dall’Impero; oggi sarebbe un basco o un catalano oppure, in Italia, un leghista duro e puro della prima ora. I suoi inneggiano al “Si ridesti il Leon di Castiglia” per separarsi dal resto della Penisola Iberica e forse dello stesso Sacro Impero Romano d’Occidente ; i loro avversari sono il Grande di Spagna Don Ruy e Carlo V in procinto di diventare Imperatore. Tanto l’uno quanto l’altro vogliono portare sotto le loro lenzuola la donna del bel rivoluzionario separatista. Quanto basta per far scattare la tragedia finale.
Negli stessi anni, un’altra testa calda scriveva opere rivoluzionarie, Richard Wagner che aveva appena messo in scena, a Dresda, Rienzi, ultimo dei tribuni. Non esisteva Internet, Wagner e Verdi non si conoscevano affatto. Il primo militava nelle file di Bakunin (sarebbe approdato su ben altre sponde), il secondo esprimeva la rabbia di chi aveva perso moglie e figli per malattia nel giro di pochi giorni e non era accettato dalla aristocrazia e borghesia dell’epoca per la sua relazione extra-coniugale con Giuseppina Strepponi. Ernani è denso di rabbia contro i Grandi di Spagna e le regole della “buona società” ma, ripeto, l’ambizione del protagonista è di farsi un piccolo regno per conto suo con le sue proprie regole non certo di tifare per l’ancora più bigotto Regno di Sardegna (a Torino non debuttò nessuna delle sua opere).
Sotto il profilo musicale, la direzione dell’ottantacinquenne riscatta l’opera dall’essere stata troppo spesso affidata da routiniers che prediligono il “zum, pa, pa”. Roberto Polastri ha sostituito, alla prima, Bruno Bartoletti, grandissimo interprete della musica del Novecento, ammalato. Polastri comprende meglio di altri come in Ernani i “numeri” o “pezzi chiusa” vengano estesi sino ad includere interi atti – il quarto è dominato da un “terzettone” che dura circa mezz’ora. Bartoletti comprende pure come la scrittura orchestrale (dallo splendido preludio imperniato su due temi) non sia mero supporto al canto, come era sia in Donizetti sia nelle precedenti opere verdiane. Non siamo certo al sinfonismo wagneriano, che contagerà Verdi da Aida in poi, ma l’orchestrazione ha grande rilievo e – aspetto a cui il compositore dava grande importanza – non deve mai coprire le voci al fine di fare comprendere ogni parola del complicato intrigo.
Ernani richiede grandi voci. È la prima prova di un “tenore verdiano” dal timbro chiaro e dall’inflessione morbida pure nei momenti più spinti. La direzione de La Fenice avrebbe voluto che la parte fosse scritta per un contralto (secondo l’uso dell’epoca; si pensi al Romeo belliniano o al Malcolm rossiniano). Verdi la spuntò, insistendo perché il ruolo venisse scritto per un uomo e creando un nuovo tipo di tenore. Rudy Park (corso in sostituzione di Aronica, anche lui ammalato) svetta sin dalla cavatina con coro con cui si apre l’opera e si merita applausi a scena aperta, ma non ha ancora la morbidezza di un vero tenore verdiano; crescerà-.
La protagonista femminile è un soprano d’agilità – per questo la parte era una delle favorite della Joan Sutherland. Dmitra Theodossiou, ottima nell’emissione e nella coloratura, oltre che nell’interpretazione drammatica, ha ricevuto ovazioni ed è stata coperta di mazzi di fiori al termine della rappresentazione.
Ferruccio Furlanetto è sempre un artista di razza; anche se un po’ affaticato, rende un Don Ruy in tutta la sua drammaticità. Buono il più giovane Marco De Felice, nel ruolo di un Carlo V tormentato dalla decisione di ascendere al trono. Il coro, guidato da Lorenza Fratini infiamma con “Si ridesti il Leon di Castiglia” più dell’arcinoto “Va Pensiero”.