E’ stata una serata musicalmente lunga quella di ieri all’Alcatraz, il massimo che sono riusciti a permettersi i Mumford and Sons come location per la loro seconda volta a Milano, che hanno inevitabilmente riempito fino all’ultimo metro quadrato di pavet. Fuori, i bagarini chiedevano anche duecento euro per un biglietto.
Introduce Jesse Quin, ex dei Keane, grande amico di Marcus & Co, che con sincerità e una chitarra si sorbisce i mormorii di fondo della gente che non vuole ascoltare; ma solo finché lo stesso Marcus e poi anche i Sons non decidono di unirsi a lui in due canzoni di pregevole fattura. Il pubblico si sente quasi preso in giro quando al posto loro salgono sul palco le Deap Vally, duo californiano al femminile che, nonostante i fischi, propone un garage rock tecnicamente ineccepibile… ma vocalmente criticabile e decisamente fuori luogo se la gente è lì per il folk. E per cantare.
Cantare così forte che non si sente nemmeno la voce di Marcus nelle prime canzoni, né tantomeno la sua chitarra. “‘Cause I’ll know my weakness, know my voice / And I believe in grace and choice / And I know perhaps my heart is fast, But I’ll be born without a mask”: conosco la mia voce, e la mia voce vuole cantare. Babel apre le danze, seguita da I will wait e Whispers in the dark. Una scaletta che vede pochi momenti franchi per le corde vocali e pochi grandi pezzi mancanti. I Mumford alternano brani del primo album “Sigh no more” ai più aggressivi di “Babel”. Nel mezzo, un Ben Lovett disinvolto parla in italiano quasi perfetto con il pubblico, violino e fiati sostengono le corde in alcune canzoni, Marcus va alla batteria in un paio di pezzi (fino a sfondarla alla fine di Dust bowl dance) e pure Ted, mentre Ben e Winston dimostrano di saper suonare anche chitarra e basso.
Nasi rivolti verso l’alto per il bis, verso una balconata laterale da cui i M&S cantano a cappella Sisters, citando quella volta a Verona in cui fecero lo stesso, anche se in un luogo molto più caratteristico e pittoresco. Una ragazza/signora riceve gli insulti corali dell’Alcatraz dopo aver provato con successo a far sentire la sua voce tra quelle dei giovani inglesi… per una volta che il pubblico era in silenzio, si stava cercando di ascoltare. Tripudio per la doppietta finale composta da Winter winds e The cave. “But I will hold on hope /And I won’t let you choke/ On the noose around your neck / And I’ll find strength in pain/ And I will change my ways /I’ll know my name as it’s called again”, canta il ritornello dell’ultimo pezzo, che chiude un concerto che era iniziato in un certo modo: con il ricoscimento della propria debolezza, ma anche con un intenzione, una certezza di fede e libertà (“grace and choice”), e finisce con la consapevolezza del dolore e la possibilità e la speranza di una conversione. Un percorso pensato e vissuto, perché si vede che quando suonano sono sinceri con il pubblico e soprattutto con se stessi.
In pochi hanno ascoltato l’intro psichedelica a Thistle and Weeds, conferma forse di quanto avevano annunciato tempo fa in un’intervista, del fatto cioè che a breve si sarebbero dati all’elettronica… folktronica a questo punto, che molti hanno già ripudiato prima di poter ascoltare qualcosa: ne abbiamo avuta la conferma ieri sera. Non so se è un problema del pubblico italiano quello di non sapere ascoltare; non so se è colpa dei Mumford, che hanno composto canzoni dai testi troppo chiari e cantabili. Il fatto è che non ci sono concerti in cui si canta e basta e concerti in un cui si ascolta e basta. Ieri sera si è ascoltato poco, troppo forte l’emozione di vedere i propri beniamini a tre metri di distanza, troppo forte l’emozione del momento per poter stare zitti e non gridare. Aveva torto, allora, Celentano, quando diceva: “l’emozione non ha voce”? Forse sì. Probabilmente no. Forse è più facile cantare l’emozione che comprendere l’emozione del cantare.
E’ stato un evento che difficilmente potremo dimenticare, quello di ieri sera. Magari non sarà storico come quello della sera prima, ma qualcuno ha alzato uno striscione durante il concerto, che diceva: “Habemus Mumford”. Abbiamo qualcosa di nuovo, a cui siamo affezionati, che ci fa cantare perché la sua musica parla di noi, della vita. I Mumford and Sons domani saranno in un altra città, ma la speranza è che continuino a “let the memories be good for those who stay” (Winter winds). Lo sono già per noi.
(Tommaso “Pacha” Pavarini)